Lettera aperta a Lietta Tornabuoni su un sostantivo ed un aggettivo
(Il sostantivo è “frattaglie”, l’aggettivo “bello”.) Gentile Lietta Tornabuoni, mi perdoni. Per quanto consapevole di quanto possa diventare leziosa la pratica onanistica della critica sulla critica, la lettura di un paio di suoi articoli ha stimolato qualche riflessione spero non inutile riguardo allo stato attuale del cinema e degli sguardi che ostinano a soffermarsi sulla sua divergente vecchiaia. Quindi, si parlava di frattaglie. Quelle che riempivano il programma di Cannes 2004 in un suo pezzo di aspra vis polemica sulle scelte del passato festival. Tra quelle frattaglie finiva (non citato in modo esplicito, ma chiaramente individuabile) anche Old Boy di Park Chan-wook, campionario trendy di violenze assortite made in Asia, come piace ultimamente ai cinefili più snobbettosi, sempre alla ricerca, si sa, di emozioni estreme. In quell’occasione, a quanto pare, il vero cinema, quello alto, nobile e pregno di contenuti era appannaggio di Almódovar, della sua protetta Lucrecia Martel, e non so chi altro. Ora, forse la questione interesserà pochi o punti, ma è un sintomo dell’annoso scollamento tra critica “ufficiale”, quella che ha come cassa di risonanza (sempre più ridotta e ghettizzata, del resto) quotidiani e settimanali; e critica militante, che si esprime tradizionalmente sulle riviste di settore e si è poi con l’ultimo decennio riversata in ordine sparso nell’oceano virtuale della rete, perdendosi in derive fanzinare e così via. Non si tratta nel caso di discutere i gusti personali, com’è ovvio, ma di constatare la confusione di gran parte della critica U rispetto a fenomeni dirompenti come l’assalto incurante di barriere protezionistiche del cinema estremorientale, il più vitale al mondo oggi secondo la critica M più o meno al completo, all’immaginario globale. Così capita di assistere a entusiasmi più o meno improvvidi su La tigre e il dragone, conditi di esaltazioni a buon mercato su supposte rivoluzioni spettacolari in corso, completamente all’oscuro dell’inserirsi del wuxia pian di Ang Lee (come di quelli di Zhang Yimou) in una tradizione antica e copiosa; a cortocircuiti vertiginosi nella confusione tra originale e copia quando gli psycho horror nipponici iniziano a essere rifatti a Hollywood o Tarantino va a saccheggiare liberamente in quel repertorio immenso di forme e stilemi; a incomprensioni profonde e probabilmente irresolvibili sulla poetica della violenza di cui Park è uno dei massimi campioni (tacendo, per carità di patria, della inveterata tendenza bipartisan a scambiare nomi e cognomi di registi e attori cinesi o coreani). Frattaglie, appunto. Bello. Cos’è bello, cos’è il bello? Si dice quando si esce dalla sala o quando si consiglia una visione a un amico, senza preoccuparsi troppo di alte questioni estetiche. In una recensione del resto positiva su Collateral di Michael Mann lei, signora Tornabuoni, rievocava velocemente il pregresso cinema del regista definendolo non particolarmente raffinato e bello. Testuale. Sulla questione della raffinatezza, non saprei cosa dire. Messa così, sembra debba intendersi come sinonimo di elegante, nel senso che comunemente si dà, per fare due esempi agli antipodi, alle opere di James Ivory o Wong Kar-wai, non certo a storie di guardie e ladri, di guerriglia metropolitana e sparatorie roboanti. Il che già inquieta un po’. Ma “bello”, santo Iddio: “bello”! Parliamo qui di cinema hollywoodiano, con parametri riconoscibili da tutti, non di strane fumisterie esotiche. E allora effettivamente si trasecola nel constatare che pregiudizi così arcaici sui film di genere trovino ancora spazio sulle autorevoli colonne de “L’espresso” o altre consimili tribune. Perché risulta evidente che un tale giudizio mai e poi mai avrebbe potuto essere applicato a, che so, Martin Scorsese o Oliver Stone, a un Autore con l’A maiuscola o a un cineasta engagè perennemente in rotta con l’industria losangelena. Ma si può appioppare senza troppi patemi d’animo a un confezionatore di thriller, horror, action. Si stenta a prendere coscienza che siano passati 50 anni dallo sdoganamento hitchawksiano dei giovani turchi dei “Cahiers”. E non si riesce proprio a credere, per entrare nel particolare, che si stia effettivamente parlando di Michael Mann. Perché Mann è considerato ormai da tanti (non solo dal sottoscritto, troppo di parte, essendosi reso colpevole della prima monografia italiana sul regista) uno degli stilisti più sopraffini del cinema statunitense contemporaneo. E qui non è questione di giudizi di valore, ma di avere un paio d’occhi a disposizione, e di sapere cosa sia il linguaggio cinematografico: al che si potrebbe al limite accusare Mann di essere au contraire fin “troppo” raffinato e bello, eccessivamente teso a una sofisticazione espressiva assoluta, che densifica all’inverosimile ogni sua singola inquadratura, portandolo più dalle parti di Antonioni che da quelle di Don Siegel. La questione, volendo, potrebbe per par condicio allargarsi anche all’autorialità europea, e basterebbe al proposito citare la recensione di Clean di Olivier Assayas, che a quanto pare non è una dolorosa parabola di morte e resurrezione rock, ma una specie di banale fotoromanzo salvato solamente dall’interpretazione di Maggie Cheung. La sgradevole sensazione che emerge in definitiva, cara Tornabuoni, è che leggendo lei e tanti altri critici “togati”, fatta la tara alle inevitabili esigenze “divulgative”, di comunicazione con un pubblico non specialistico, alla noia della pratica quotidiana della recensione e alla fretta con cui certi articoli sono vergati, si stia parlando di cose (cinema, film, e la loro percezione) radicalmente diverse. Non sono normali divergenze d’opinione, sono veri e propri mondi a parte, qualunque cosa ciò voglia dire.
Con rispetto Alessandro Borri
[maggio 2005]
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