Libri - Il cinema di Bob Dylan

Bob Dylan è un uomo che ha costruito accuratamente la propria identità, a partire dal suo stesso nome, e non sorprende che il cinema sia stato magneticamente attratto dalla sua figura, che ha sempre elaborato focalizzandosi sulle molteplici manifestazioni dell’io di questo cantautore. Ad oggi – avviandosi verso i settant’anni – Dylan ha alle spalle una marea di film a cui ha partecipato in veste di attore o come compositore di colonne sonore, due girati da lui stesso e svariati documentari nonché film di finzione che raccontano la sua “leggenda”.
Il libro di Rudy Salvagnini pubblicato da Le Mani –Il cinema di Bob Dylan - è un accurato catalogo di tutti questi lavori, con tanto di analisi approfondita dedicata ad ognuno di essi, anche quelli veramente minori. La documentazione dell’autore è infatti capillare: è chiaro da subito che si tratta del lavoro di un sincero fan del grande cantautore americano. Il libro è molto interessante, specialmente per coloro (non pochi) che condividono la passione di chi lo ha scritto. Si parte dalla leggendaria partecipazione di Dylan in veste di attore a The Madhouse on Castle Street, un serial TV inglese che uscì nel 1962 in contemporanea al primo album del cantautore (e di cui è stata persa ogni testimonianza), per arrivare ai più recenti lavori su Dylan: il capolavoro di Scorsese – No Direction Home – e i due film di fiction che lo vedono protagonista interpretato da altri, I’m Not There di Todd Haynes e il terribile Factory Girl di George Hickenlooper. Ciò che un po’ tristemente emerge è che Dylan – come spesso accade ai musicisti che incontrano la settima arte – ha raramente avuto successo quando si è cimentato in prima persona nel cinema. I film in cui ha recitato sono quasi tutti mediocri e anche dei flop commerciali, da Hearts of Fire di Richard Marquand (con Rupert Everett) a Masked and Anonymous di Larry Charles (con un cast di all star quali Jeff Bridges, Jessica Lange e Mickey Rourke). I film che ha diretto sono poi dei fallimenti ancora più clamorosi, specie per quanto riguarda l’opera monumentale (di ben 6 ore) Renaldo & Clara. L’unica eccezione è costituita da un film che ai suoi tempi fu un flop, ma è oggi largamente rivalutato, e per cui Dylan ha scritto una delle colonne sonore più famose di sempre: Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah, che si vale della bellissima Knocking on Heaven’s Door. Il discorso cambia quando si tratta di opere su di lui (anche se magari non interamente); dai film-concerto - tra cui spicca il bellissimo The Last Waltz, ancora una volta di Scorsese - ai documentari veri e propri: Don’t Look Back, il “reportage” di Pennebaker sul tour inglese fatto da Dylan nel ’65, e il già citato No Direction Home di Scorsese, che ripercorre tutta l’irrequieta e leggendaria vita del nostro artista. Gli aspetti più interessanti di questo libro rimangono però quelli che affrontano l’approccio in prima persona – pur fallimentare – di Dylan al cinema. Salvagnini rende chiaro che, quando il cantautore si mette dietro la macchina da presa, cerca di dare alle immagini la dimensione poetica, visionaria e antinarrativa che hanno le sue canzoni. I suoi numi tutelari in quest’operazione sono i registi della Nouvelle Vague, che ammira per la loro attività rivoluzionaria nei confronti del cinema, e con cui probabilmente si immedesima in qualità di “innovatore”, contestatore del preesistente, cantore dei “tempi che stanno cambiando”. C’è quindi un aspetto molto importante che forse rimane tra le righe. Mentre la musica di Dylan, pur rivoluzionaria, si nutre incessantemente dell’opera dei padri – i grandi bluesman neri americani e i folksinger come Woody Guthrie – il suo cinema fa riferimento solo agli innovatori, ignorando quello che i registi della Nouvelle Vague – pur contestandolo – portavano sempre nel cuore: il “cinema dei papà”.
E questa teoria sembrerebbe trovare conferma nell’aneddoto raccontato da Salvagnini sulla mancanza di rispetto che Dylan mostrò nei confronti del grande regista Otto Preminger, quando questi gli chiese di scrivere la colonna sonora di Tell Me That You Love Me, Junie Moon. L’esempio dei padri è il “sacro fuoco” di ogni forma artistica, ma se Dylan nel caso del cinema l’ha ignorato si può auspicare che dipenda dal fatto che la sua ricerca non si è ancora conclusa, se è vero ciò che afferma all’inizio di No Direction Home: “sono nato molto lontano da dove avrei dovuto essere, quindi sto percorrendo la strada che mi riporterà a casa”.
Autore: Rudy Salvagnini
Titolo: Il cinema di Bob Dylan
Editore: Le Mani
Collana: Saggi
Dati: 320 pp, copertina morbida
Anno: 2009
Prezzo: 16,00 €
webinfo: Scheda libro sul sito Le Mani
