LOST: INTRAPPOLATI DA ABRAMS, SIGNORE DELLE MOSCHE
E’ raro trovare, almeno negl’ultimi anni, un prodotto televisivo che abbia attirato su di se l’attenzione di pubblico e critica tanto quanto Lost. Il drama della ABC è stato in grado di spazzar via i record d’ascolto del suo anno d’uscita (la puntata pilota ha ottenuto una media di 18.700.000 spettatori) e contemporaneamente accendere l’interesse della critica mondiale, attenta ad analizzare forma e contenuto di un prodotto altamente innovativo. Non che non esistessero precedenti televisivi dei 25 episodi della prima serie ma, paragonato a L’isola di Gillian (1964) o La terra dei giganti (1968), Lost, per la complessità del racconto e le tematiche affrontate, sembra approdare ad un livello superiore, “cinematografico”. Ciò che rende intrigante l’idea di Abrams e Lindelof è il sapiente mix di simboli e archetipi, quali l’isola misteriosa, il naufragio, la sopravvivenza, con topoi classici della televisione (su tutti i personaggi di Micheal, afro-americano costretto a prendersi cura del figlio e la coppia asiatica schiacciata da retaggi di antiche tradizioni).
Il naufragio e l’isola misteriosa, in particolare, richiamano alla mente l’archetipo junghiano rappresentando, nell’inconscio collettivo, una metafora esistenziale, un punto da cui ripartire, da cui rifondare una nuova società, così come accade in uno dei precursori nobili della serie, Il signore delle mosche di W.Golding. Una società, la nostra, che secondo A.Grasso: “Per riflettere ha bisogno di muoversi in un luogo esterno, in una condizione inusuale”. Si spiegherebbe così il successo di una serie dalla struttura estremamente complessa, che, sempre per citare A. Grasso “riprende uno schema narrativo di grande fascino ben sperimentato in letteratura”. Non pare d’altronde un mistero il riferimento, da parte di Abrams e Lindelof, a opere come Alice nel paese delle meraviglie di Carroll e L’isola misteriosa di Verne oltre che al succitato romanzo di Golding.
Ciò che distingue Lost dai precedenti è però la straordinaria costruzione narrativa che lo ha fatto avvicinare a Twin Peaks di D. Lynch. A ben guardare però, non sono poi molti i punti di contatto fra la serie del maestro statunitense e il drama della ABC. Twin Peaks appare visivamente e strutturalmente legato ad un linguaggio cinematografico, adattato al piccolo schermo che, a tratti, mal lo contiene. Lost, per converso, può esser preso come paradigma del drama-tv, essenzialmente basato sulla familiarizzazione e coralità dei personaggi. Nonostante infatti i 14 superstiti appaiano molto più finti delle casalinghe di Desperate Housewives o dei becchini di Six Feet Under, gli spettatori sembrano essersi affezionati alle maschere in scena. Semmai, nel costruire e risolvere la suspance, il lavoro di Abrams ricorda le lezioni di Hitchcock, imprigionato nel tempo di un racconto che amplifica all’infinito la materia della narrazione. Un intreccio che, di flashback in flashback, sembra espandersi senza soluzione di continuità, creando un rapporto abnorme fra fabula e intreccio e ridando dignità ad un artificio, il flashback appunto, inflazionato e obsoleto. Fondamentale in questa chiave è la figura del narratore, non più attoruncolo dalla bella voce ma “potere che gestisce il rilascio delle informazioni”*. Incarnandosi quasi con l’essere misterioso che determina i destini dei sopravvissuti, il narratore gestisce anche il nostro destino costringendoci a incartarci intorno ai pochi, pochissimi indizi che vengono distillati. Come dice il critico Peter Ames “Sin dall’inizio si intuisce che gli eroi della serie sono già perduti” ma le scarse nozioni analitiche in nostro possesso ci costringono a cercare soluzioni sempre diverse, ad ogni svolta, ad ogni bivio, di puntata in puntata. E’ qui probabilmente la vera differenza con i reality show. Nell’Isola dei famosi siamo bombardati di notizie e informazioni, con finte verità perennemente davanti agl’occhi, sull’isola di Lost, a due anni dalla messa in onda, siamo ancora a chiederci cosa stiamo vedendo.
* Mario Sesti in “Duellanti” n.26 maggio 2006 pp.56-57