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Memé e il Teatro da non dimenticare.

Pubblicato il 7 aprile 2017 da Monia Manzo


Memé e il Teatro da non dimenticare.

La sua voce era di una timidezza incredibile se paragonata alle esplosioni teatrali che era stato in grado di produrre in molti dei suoi spettacoli, andati in scena soprattutto negli anni 70, durante uno dei periodi più prolifici per l’avanguardia teatrale romana: 1947, inizia con Pirandello chi? (1973) cui seguono Tarzan (1974), Candore giallo con suono di mare (1974), Otello (Biennale di Venezia 1975), Paesaggio n.5 (1975), Locus Solus di R. Roussel (1975), La partenza dell’Argonauta di Savinio (Maggio Musicale Fiorentino 1976), Cavalcata sul lago di Costanza, da P. Handke, 1979.
Negli anni successivi, in spettacoli più tradizionali, da Shakespeare a Ibsen, dall’operetta (La vedova allegra, di F. Lehár, 1983) al testo dadaista (Il canarino muto di G. Ribemont-Dessaignes, 1994), la vena parodistica e uno spiccato gusto scenografico segnalano la fedeltà di P. al proprio mondo fantastico. Ha lavorato anche nel cinema, come interprete (Voltati Eugenio, 1980; Notte italiana, 1987; Onorevoli detenuti, 1998).
Nato a Montecchio nel 1949 da una famiglia di circensi, aveva imparato ben presto, come dichiarò in una delicata intervista a Rai 1 di circa 20 anni fa, che l’importante nella vita era il rispetto delle persone che troviamo durante il nostro percorso.
È un caso che una simile educazione abbia avuto un non semplice impatto con il sempre più cinico e poco accogliente mondo dello spettacolo italiano, e ancora prima romano?
Non deve essere stato semplice per un artista nella più vera e sincera delle accezioni, capire che la strada costruita e sedimentata con il gruppo della "Beat 72", composta da gli allora amici Ulisse Benedetti e il da poco scomparso Simone Carella, che nel teatro-cantina di Prati riuscirono a dare vita al teatro sperimentale della Capitale. Nonostante il trasferimento nella città di Pesaro dove si occupava di nuove istallazioni teatrali, non era riuscito a sconfiggere una grave depressione, un male che lo affliggeva da anni, come racconta Benedetti in un’intervista dopo la morte, avvenuta a causa di una caduta dal quinto piano del suo appartamento nel quartiere Esquilino. Nessuno può veramente comprendere la sofferenza di chi concepisce l’arte nella sua versione più pura e trasversale, e poi doversi confrontare con dei sistemi secondo i quali i propri lavori, seppur fondamentali nell’evoluzione creativa, possano essere definiti "superati".
A nostro modesto parere nessu premio, nessun grande successo potrà mai essere un viatico per le felicità di un artista, se poi la memoria storica non gli riconosce ciò che dovrebbe appartenergli nella maniera più spontanea e meritocratica.
Basta con articoli postumi alla scomparsa di grandi personaggi come Memè e almeno si cerchi di recuperare il lavoro e la ricchezza prodotta attraverso testi e allestimenti, che possano trasmettere alle attuali e future generazioni ciò che la nostra società cancella senza il minimo riguardo.
Addio Perlini, ma che sia solo quello formale.


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