Moni Ovadia: Cabaret Yiddish

ENTE TEATRALE ITALIANO - TEATRI NELLA RETE
Appena entrati nel campo di concentramento di Therisien (il triste campo civetta a pochi chilometri di Praga) si è immediatamente colti da un incredibile effetto di straniamento. Subito dopo l’ingresso, quasi a ridosso della biglietteria che, come Caronte, prende la sua moneta per consentire ai viandanti l’attraversamento dello Stige e il raggiungimento dei gironi infernali, c’è un piccolo chioschetto di souvenirs. L’impressione al passaggio è una vertigine paradossale di Senso, un sentimento di “fuoriposto” che ci accompagna quei pochi passi prima che la Storia ci tuffi nell’incubo, prima che il passato ci assalga coi suoi odori, i suoi colori tendenti al grigio e i suoi suoni che sembrano registrati su una pellicola d’altri tempi.
Ma quest’impressione è ancora niente rispetto a quella che proviamo quando usciamo dal campo e ripassiamo davanti al chiosco e quella bolla di presente ci si ripresenta dinnanzi agli occhi come una contraddizione.
Anche se tra gli scaffali del negozietto non ci trovate cartoline da spedire ai propri cari o repliche in plastica dei forni per il sollazzo dei bambini, ma solo libri e qualche immagine emblematica, l’idea del ricordino confrontata con il bisogno di Memoria che ci coglie durante la visita del luogo è talmente incongrua che non può non trasformarsi in disagio.
Solo dopo qualche passo ci viene in soccorso l’etimologia della parola e ci si accorge che il verbo souvenir è intimamente legato al ricordo. Certo il sovvenire è imparentato col passo lieve della nostalgia, è il ritorno di un pensiero caro, di un’immagine piacevole che difficilmente assoceremmo alle torture e alla morte, ma, per quanto paradossale possa sembrare, c’è una forma strana di nostalgia anche nei racconti dei deportati, anche nelle domande urgenti di Levi o nelle risposte piane di Etty Hillesum.
Sono queste considerazioni, unite al ricordo di quando Leopardi, davanti alla siepe, si lasciava sorprendere dal sovvenir dell’eterno e delle morte stagioni, che ci riconciliano con la parola finalmente sgrossata da quelle incrostazioni turistiche con cui l’abbiamo letta all’entrata ed all’uscita del campo.
Ed è con questi pensieri bene in mente che dobbiamo leggere quella che, secondo noi, è la migliore definizione che si possa dare di uno spettacolo come Cabaret Yiddish, quella di un souvenir dai campi di concentramento.
Sebbene, infatti, di guerra e deportazioni, di marce e di camere a gas si parli relativamente poco nel corso dell’intero spettacolo, essi ne sono, di fatto, i protagonisti occulti. Perché il controsenso di quell’immane catastrofe che è stata il genocidio semita è che ora, a tanti anni di distanza, ci è del tutto impossibile proferire la parola ebreo senza che ad essa si accompagni il ricordo di Auschwitz. E non si possono mettere su palco figure di rabbini o di ricchi commercianti (lo stereotipo e al tempo stesso l’archetipo del giudeo) senza che alle loro spalle, le luci della ribalta, non disegnino le ombre dei forni.
Moni Ovadia, che è uomo di spettacolo di specchiata intelligenza, trasforma questo sostanziale paradosso dell’evo moderno in materia di canto e di ironia. Costruisce sulle tavole del palcoscenico un piccolo monumento alla realtà ebraica, alla sua inveterata capacità di sopravivere all’esilio, alle marce quarantennali nei deserti, e sa che questo divertente e divertito infilzarsi di barzellette e musiche non può non implicare il sovvenire dell’orrore e dello strazio.
Anzi Moni Ovadia quel “sovvenire” lo cerca, lo sollecita, lo spinge fuori dal proprio pubblico e lo tiene in vita come la fiammella con la quale i boy scout preparano, di notte, i falò.
Così la Guerra, la fame, il dolore e il sentimento dell’esilio si scavano nei volti e nei corpi emaciati dei suoi personaggi (evocati, sognati, fatti vivi dal gesto attoriale) e si impongono con l’evidenza e l’invadenza del dato di fatto incontrovertibile.
Si ride molto assistendo alla rappresentazione di Cabaret Yiddish, se ne gusta sino in fondo la genuina espressione d’un umorismo intinto nell’umanità più vera. Ma si ride di quel riso che è l’unica cosa che ci resta dopo che sono finite le lacrime e quando il patire è diventato ormai di casa nel nostro cuore. È la risata della distanza, quella evocata da Moni Ovadia, quella di chi guarda alla miseria da un altrove della mente che non ci porta lontano con gli occhi (perché non cambia, in fondo, la miseria che vediamo) ma che ci fa distanti col cuore e, quindi, paradossalmente, più vicini perché si sa che gli estremi si toccano sempre.
L’attore menestrello regge il palco per due ore. A stento ci accorgiamo del tempo che passa anche se qualche storia magari la sapevamo già e qualche canzone ci piace meno di altre. I musicisti che ha intorno sono appena qualcosa in meno dello straordinario. Ma lo diciamo giusto perché è convenzione dare per scontato che la perfezione è irraggiungibile.
Certo Cabaret Yiddish resta spettacolo un po’ lungo, ma la capacità di miscelare riso e commozione è spesso invidiabile. E per una volta il souvenir che ci portiamo dai campi di concentramento non ci sembra occasionale o comandato. Ha una sua etica. Di questi tempi non è decisamente poco!
(Cabaret Yiddish) di Moni Ovadia; con Moni Ovadia (voce), Emilio Vallorani (flauto), Janos Hasur (violino), Albert Florian Mihai (fisarmonica), Luca Garlaschelli (contrabbasso).
