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Mrs. FANG - Documenta 2017

Pubblicato il 23 giugno 2017 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Mrs. FANG - Documenta 2017

A Kassel, nel cuore della Germania, dove Documenta, la più importante manifestazione di arte contemporanea che con cadenza quinquennale tenta di fare il punto sulla situazione mondiale della creatività artistica gli ha dedicato una retrospettiva, Wang Bing ha presentato il suo ultimissimo lavoro, Mrs. Fang (nell’originale mandarino Fang Xiu Ying), anch’esso, come ormai tutti i suoi titoli realizzati dopo il film di finzione The Ditch (inserito a sorpresa nel concorso della Mostra di Venezia del 2010), un documentario testimone delle profonde trasformazioni della Cina del boom, dove convivono in disarmonico e insanabile contrasto la gestione di un capitalismo purulento, bulimico e omologante, e la millenaria condizione contadina delle provincie profonde, dove la scansione di una quotidianità divisa tra il giorno e la notte è ancora indissolubilmente legata alla soddisfazione delle esigenze primarie, alla vita e alla morte, senza alcuna attenzione apparente all’interiorità e alle attività intellettuali dell’individuo. Il cinema, anzi meglio sarebbe dire “lo sguardo” di Wang Bing, egli stesso operatore della sua telecamera, convive con le situazioni che filma per giorni, settimane, mesi, e discretamente ne registra il divenire cogliendone quell’universalità rintracciabile solo con il minimo ingombro di una handycam, e con la straordinaria sensibilità poetica (e politica) di un occhio capace di riconoscerla e afferrarla.

Se nella preview ateniese di Documenta inaugurata lo scorso aprile Wang Bing era presente con le 15 hours (titolo e altrettanta quantità di footage) del suo materiale girato per Bitter Money, il suo film sull’industria tessile che richiama nelle grandi città dalle lontani regioni della Cina migliaia di lavoranti, Mrs. Fang ha una contenutissima durata di 90 minuti, e mostra gli ultimi mesi di vita di una donna di 67 anni malata di Alzheimer, presentata ancora semi-cosciente in brevi inquadrature introduttive, poi subito allettata e ridotta allo stato larvale, circondata da parenti e conoscenti nel suo misero letto di morte per tutto il resto del film.

L’etica del documentarista prevede che durante un combattimento militare di terra, una manifestazione sportiva, una festa popolare, o qualunque sia l’evento reale che egli ha scelto di documentare, minime, o meglio neanche una, saranno le sue indicazioni “di regia”, affidandosi alla regia personale di chi quegli eventi sta vivendo in prima persona, e limitandosi a registrarli filmandoli, preoccupato di farli entrare nello sguardo del proprio obiettivo in inquadrature armoniose, chiare, e intellegibili senza filtri o spiegazioni; ma soprattutto di intuire dove indirizzare il proprio sguardo perché arrivi a catturare gli eventi là dove se ne verifichino di determinanti per illustrare al meglio l’argomento del film. Ponderata e attenta la regia di chi filma, istintiva invece, e dominata dalle necessità contingenti del caso, la “regia personale” di chi viene filmato, che nella maggior parte dei casi è informato di venire ripreso dall’occhio di una telecamera, senza per questo – e sarà cura del regista riuscire ad ottenerlo con abilità, tatto e discrezione – esserne inibito o in qualche modo condizionato. (Il regista completerà poi il suo lavoro nella successiva fase del montaggio, quando definirà la propria regia selezionando da tutto il materiale girato le immagini che riterrà più efficaci ed esemplificative, montandole secondo quella sensibilità che è propria della sua riconosciuta autorialità, possibilmente senza travisare il senso e l’autenticità del reportage). Nel filmare i malati di mente di Feng Ai, presentato alla Mostra di Venezia quattro anni fa, Wang Bing ha spinto ancora più oltre il tacito patto che il regista stringe con il mondo reale che intende documentare: i “matti”, cui difetta la completa consapevolezza delle proprie azioni e delle proprie parole, agiscono come marionette guidate da un ente inafferrabile e incontrollabile che è la loro follia. Una simile condizione relega il regista in posizione di passiva osservazione di gesti ed eventuali parole, su cui non ha che minime possibilità di intervento durante il loro verificarsi (un po’ come nel caso dei documentari sugli animali, filmati da molto lontano con obiettivi potentissimi senza poter minimamente interferire, a rischio della vita stessa, con la loro natura ferina).

Con Mrs. Fang la relazione tra l’azione e l’oggetto del filmare si materializza esclusivamente nello sguardo del regista-operatore alla macchina, perché chi è ripreso dalla telecamera è vivo, o meglio vegeta in uno stato di vitalità naturale ma privo del minimo barlume di coscienza: la Signora Fang, nei suoi ultimi mesi di vita, è un corpo inane, ridotto ad una funzionalità meramente biologica, adagiato su un letto e avvolto in una coperta sulla quale è ricamata una parola in inglese, che sta ad indicare la cosa forse più cangiante ed effimera che esista al mondo, dopo la vita stessa: “Fashion”, la Moda. Non parla più, non comanda i suoi minimi movimenti, le sue pupille vagano inerti, almeno apparentemente senza dare un nome o un senso a quello che (forse) guardano, né tantomeno rendersi conto che a pochi centimetri da lei, a scrutarle dentro il suo sguardo vuoto, a cogliere e seguire con curiosità tra lo scientifico e il morboso ogni suo gesto involontario provocato da un’incontrollata reazione dei suoi muscoli interni e dei suoi nervi, c’è l’occhio di una telecamera. Questa non-vita, che si manifesta in sussulti improvvisi intervallati da lunghi e sospesi attimi di stasi espressiva e corporale, e dunque questa assenza di qualunque regia volontaria del soggetto, sono il crudele, insostenibile spettacolo filmato dall’occhio di Wang Bing, la cui sottomissione assoluta alla negazione dell’idea stessa di una possibile “regia” in grado di modificare la realtà o interagirci in qualche maniera, si fa sullo schermo testimonianza di un paradosso: la negazione, la vanità, l’inutilità del cinema stesso. “Guardare” così da vicino il volto senza espressione della Signora Fang non serve a niente, se non a stimolare nello spettatore un altrettanto inutile pietà, già avvertita come inutile dallo stesso Wang Bing mentre filmava. E all’inutilità del guardare la non-vita della Signora Fang in attesa della sua morte, si accompagna la vanità della vita, del chiacchiericcio di coloro seduti accanto al suo capezzale o che vengono a farle visita, il loro dolore, il loro dispiacere più o meno sincero, più o meno circostanziato: gente che conduce un’esistenza di fatica, povertà e squallore, che si procura il cibo con la pesca e con la vendita dello scarso pescato.
Ed ecco introdursi, nella statica e inerte parabola finale della Signora Fang, un altro elemento a significare un’ulteriore livello di vanità di un tutto dominato dalla più casuale fatalità: che siano presi all’amo o che restino intrappolati nelle reti dei pescatori, i pesci sono come noi umani, pescati a caso dalla morte, se non ora più avanti, senza gerarchie, senza criterio alcuno; nella frettolosità del gesto che li vede cadere dalla rete nella stiva dell’imbarcazione che solca quelle basse paludi, qualcuno di loro finisce in un altro vano dello scafo, dove altrettanto casualmente si è addensato dell’acido; quel pesce si scioglie in un guizzo di schiuma, imputridisce all’istante, diventa immangiabile: quel pesce è la Signora Fang, che doveva morire come dobbiamo morire tutti, ma è caduto nell’acido, ed è andato a male. Per puro caso.

Nel pedinare, in sequenze più mobili e cinetiche, questi pescatori improvvisati, bambinoni cresciuti che ostentano un perenne tragico sorriso divisi tra il fumare e il consultare il display del cellulare come se non capissero quale gioco duro e senza regole sia la vita toccata loro in sorte, Wang Bing arriva progressivamente a trasfigurarli, come il solitario dell’inquadratura conclusiva che in piedi sulla prua della sua barca a motore scivola sulla palude e rimesta le acque con il suo grande retino, nelle caustiche e beffarde figure di lugubri mietitori, funzionari di un Ministero della Morte che a caso segano l’aria con la falce...

Mrs. Fang, in programma tutti i sabati al Gloria Kino di Kassel per tutta la durata di Documenta 14 (che lo ha co-prodotto) dal 10 giugno al 17 settembre, è il più funesto, luttuoso ed estremo film mai firmato da Wang Bing, una meditazione fradicia di cosmico pessimismo, congelato nella tutta orientale e laica consapevolezza di una vita fondata sul nulla e sull’assenza di qualunque senso nel caos che governa i destini del nostro mondo.


CAST & CREDITS

(Fang Xiu Ying); Regia: Wang Bing; sceneggiatura: Wang Bing; fotografia: Wang Bing; montaggio: Wang Bing; produzione: Documenta 14; origine: Hong Kong/China/France, 2017; durata: 90’


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