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MUSEUM 2011 - La sala degli incantatori

Pubblicato il 12 ottobre 2011 da Alessandro Izzi


MUSEUM 2011 - La sala degli incantatori

Ti accoglie all’ingresso della Certosa di San Martino a Napoli e non ti lascia più: un mormorio a stento distinguibile pieno di interrogativi e silenzi.
“Dov’è la libreria?” “Che fine ha fatto?”. Qualche voce più forte, supera il disegno aereo del contrappunto di domande e azzarda un accenno di discorso: “Qui c’era una signora libreria coi volumi che arrivavano sin lì. E che bei libri…” e qualche mano si alza ad abbracciare, per lo sguardo, gli scaffali vuoti che ancora stanno lì, muti testimoni di un passato non troppo lontano.
Se è vero, come dicono, che la chiusura di un teatro è come una libreria che brucia, qui, alla Certosa di San Martino è in corso una lenta apocalisse. La libreria ha già chiuso i battenti, il teatro, qualche passo più avanti, nelle sale destinate all’iniziativa MUSEUM, promossa da Libera scena ensemble di Napoli, è schiacciato dai tagli, soffocato, sempre più, dall’impossibilità di tenere un cartellone.
L’anno scorso le sale aperte per le rappresentazioni che accoglievano il pubblico del museo erano nove. Quest’anno sono quattro appena, raccantucciate come punti cardinali di una bussola che a stento tiene il Nord e che, fioca fioca, mantiene intatta la speranza che un’altra Italia e un’altra Napoli siano possibili.

L’idea di crisi entra anche nello spettacolo della sala degli incantatori. Se la portano appresso come uno spiffero gli spettatori e si insinua nelle battute di uno spettacolo che mette una sull’altro la crisi culturale del barocco e il vuoto di valori di oggi per guardarli insieme in controluce. Sulla scena tre attori che non trovano ingaggi, un locandiere ed una cameriera, un soldato di ventura dal nome ingombrante (Cervantes) e un paladino che crede di essere ancora ai tempi delle imprese cavalleresche con tanto di fido scudiero. Apprendiamo così, per le magie dell’invenzione, che l’idea del Don Chisciotte è venuta, a Cervantes, durante il suo soggiorno a Napoli, quando l’occupazione spagnola era forte e i teatranti, come sempre in fondo, ma oggi più di ieri, stringevano la cinta.
L’artificio della scena sulla scena è il pedaggio da pagare per la moltiplicazione dei punti di vista e per quella “vita è sogno” che anche Pirandello ha preso a prestito dal Siglo de oro. Soluzione facile, ma necessaria ad una felice serie di invenzioni su tema che sarebbero piaciute ai barocchi, ma che trova, proprio nella Certosa napoletana, la cornice ideale e non inerte. La drammaturgia di Giuliano Longone e Lello Serao ha mano felice nel distribuire piccole perle di senso con un gioco di situazioni sempre cangiante e splendidamente assecondato dagli attori. E se è indiscutibile Lello Serao nella parte di Cervantes, non da meno Margherita Vicario è un sapido scudiere e l’attor giovane (dal nordico accento: simpatica idea) di Nicola Laieta parrebbe pronto ad andar oltre la funzione del suo ruolo. Ma è Paolo Cresta, in particolare, a trovare sintonie inattese col suo pubblico senza mai cercarlo con gli occhi.
Del resto la sua scena è altrove e, se la storia non può non chiudersi se non con la morte del sognatore (e con un altro, triste, rogo dei libri che immaginiamo altri da quelli della libreria della Certosa), nondimeno lo spettacolo ci lascia con un desiderio di “resistenza” che sta anche a noi tenere acceso.

Nel mezzo della spazzatura anche Napoli ha i suoi fiori di Loto: che qualcuno se ne accorga!


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