NAPOLI, PAN - MARIKA RIZZI

NAPOLI - OBJET D - In occasione del festival napoletano del “Coreografo elettronico”, per due serate si è visto nel museo napoletano di arte contemporanea PAN la performance Objet d, coreografata dall’italo-parigina Marika Rizzi. Il brano ha un concetto di fondo, e anche uno sviluppo, in qualche modo elementare, basato su pochi elementi minimali. Una sua prima porzione si basa su un movimento di slow motion eseguito con gran chiarezza e autocontrollo, che in qualche modo “resuscita” il corpo fisico della protagonista dallo stato materico e lo consegna alla dimensione astratta, quasi metafisica di un movimento severo, enigmatico, autonomo da ogni anche immaginaria relazione con il quotidiano o con il gesto concreto. Da questa lentezza ci si affranca ad un certo punto, nell’arco di forse venti minuti. A questo punto la Rizzi va dal centro dello spazio (atrio del museo) a schiacciarsi contro il vasto muro candido di fronte all’ingresso di palazzo Roccella, mentre il video di Vidal Bini viene proiettato. La coreografa cerca con le sue membra, e vi dà luogo, a un effetto di fusione corpo-superficie; la luce proiettata perpendicolarmente al muro elimina quasi le ombre, con il risultato di rendere il senso di fusione tre i due elementi. Ma in quel momento si proiettano su quel muro sequenze di un video, concepito in cooperazione tra Vidal Bini e la stessa Rizzi. Un video che ricorda, per i colori e a volte anche per i soggetti, la produzione pop, “à la Warhol”, di Ed Ruscha tra il ’60 e l’80: colori shocking, tutti caldissimi e cremosi, e sequenze di successione di frutta e ortaggi ipermaturi, intensi, quasi liquefacentisi, forme bellissime ma dovute solo all’opera della natura. E’ la danzatrice forma dunque, o è virtuale come le immagini, è una parte di schermo? O è umana, l’opposto del vegetale, piuttosto che un ulteriore frutto naturale, che non si è mai visto sugli stand del mercato? Il corpo come oggetto inanimato dunque ancora una volta, se la sua essenza si“schiaccia” contro quelle immagini.
Mentre rotola sulla scala, è di nuovo un oggetto, perché si muove senza mostrare, o senza minimamente articolare le fattezze del volto. La sua espressione volutamente è priva di sguardo, si direbbe perfino degli occhi. Quando proprio non si può fare a meno di vederli, è come se improvvisamente fossero di metallo, o di materia artificiale. La danzatrice non è più corpo umano, bensì ormai come un pezzo di arredamento che abita quello spazio, cade e rotola lontano.
Il rapporto di una simile perfomance con l’ambiente dell’arte figurativa, lo stesso entro cui essa si è vista accolta al PAN, può apparire chiaro - ammesso che sia effettivamente a tal punto deliberato e desiderato dagli artisti/creatori - ma proviamo ad immaginarlo. Se è vero che l’oggetto estrapolato dal reale e musealizzato comincia ad essere opera solo con Duchamp, e che questo passaggio è stato essenziale nella fondazione dei principi dell’avanguardia storica, con la quale le collezioni del PAN certamente iniziano, allora l’equazione tra l’objet-Rizzi, l’oggetto metafisico D (=dance? Dieu?) e l’objet trouvé è compiuta. Come un momento della collezione contenuta nelle sale circostanti, questo oggetto, senza occhi e dunque senza anima secondo una radicata tradizione visiva occidentale, è giunto a esporsi al nostro sguardo, perplessamente vagante tra i generi in cerca di una categoria definitoria soddisfacente. Questo in particolare avviene con una estrema contravvenzione alla semantica delle arti: installazione e performance sono in effetti appunto, tra le categorie dell’arte oggi e da qualche generazione in qua, i due poli antinomici, se non incomunicabili certamente almeno alquanto reciprocamente estranei (cfr. il saggio di H. Belting The End of Art History?,2002).[luglio 2006]
