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Negli occhi, tra mare e cielo

Pubblicato il 19 dicembre 2003 da Alessandro Izzi


Negli occhi, tra mare e cielo

Probabilmente nessun autore come Peter Weir è capace di lasciare il proprio chiosatore così profondamente spaesato, così assolutamente insicuro sulla direzione da prendere per far partire il proprio discorso critico. Ogni nuova pellicola dell’autore, infatti, sembra voler obbligare il proprio commentatore ad azzerare i parametri del suo giudizio, a fare un’ideale tabula rasa di quanto detto precedentemente per ripartire da considerazioni assolutamente nuove. E questo perché, paradossalmente, ogni nuovo film presentato da Weir ha l’incredibile e assurda capacità di essere la sintesi perfetta, la summa ideale di quanto l’aveva preceduta e, contemporaneamente il punto di partenza per una nuova riflessione. Eppure nel corso di un lavoro che è passato dall’autorialità incredibile di un film come L’ultima onda per arrivare alla fine psicologia apocalittica di Fearless (a tutt’ora il suo film più spiazzante ed emozionante), e nonostante il continuo cambio di registro stilistico che si è mosso tra i toni da commedia sofistica di Green card, tra le atmosfere da noir esistenzialista di Witness, fino alla distopia fantascientifica di The Truman show, resta fermo, al centro del discorso weiriano, un profondo, sentito umanesimo che non ha precedenti all’interno dell’industria hollywoodiana. Anche se, infatti, Master and Commander realizza delle vere e proprie assonanze tematiche con altre pellicole del regista, quello che colpisce davvero, il reale senso ultimo del tutto e il motivo dell’originalità di questa pellicola splendidamente ancorata alla sua assoluta inattualità (un film d’avventure marinare, virato tutto al maschile, e tutto chiuso in un microcosmo linguistico fatto di pause e parentesi spesso più pregnanti dell’azione stessa) sfugge, in questo come in altri film, alla possibilità di una reale comprensione logica e resta, per lo più, legato alla sfera del puro irrazionale. Non è difficile riconoscere, nella pertinacia con cui il capitano della nave da guerra di questo film insegue il folle sogno di distruggere la diretta rivale francese, la stessa ossessione che aveva mosso il protagonista di un film come Mosquito Coast. Come, del resto, non è difficile ritrovare nelle scene in cui la nave fa scalo nelle ancor per poco vergini isole americane, quel senso di smarrimento nell’alterità di culture arcaiche e animiste che avevamo già sentito in Picnic ad Hanging rock. E, del resto, lo stesso rapporto che lega l’ufficiale medico (appassionato naturalista come tutti i personaggi più belli del cinema di Weir) al giovane cadetto che ha perso il braccio durante il primo cannoneggiamento, è così tanto simile alla magia che Keating era capace di creare quando parlava ai suoi allievi in Dead poets society (film di riferimento anche per la bellissima scena del suicidio notturno). E, ancora, le scene di battaglia rimandano nella loro assurdità da trincea a certi momenti di Gli anni spezzati. Ma, come accennavamo prima, questi temi ricorrenti divengono pura lettera morta, indizio di una solo presunta autorialità se non sono messi a contatto con la straordinaria carica vivificante che è tutta nello sguardo del regista. In questo senso Weir ha l’indiscutibile capacità di riuscire a porre la propria macchina da presa alla distanza esatta da quelli che restano i suoi temi prediletti. Qualsiasi sia la realtà che il regista decide di riprendere, e qualsiasi siano le logiche narrative implicite nei generi da cui decide di attingere, resta sempre indiscutibile l’abilità di trovare sempre la giusta “vicina lontananza” tra sé e il mondo che rappresenta. Mai incline alle sottolineature del melodramma (laddove il sentimento sembra essere più importante del personaggio) e al tempo stesso mai propenso alle analisi sociali raffreddanti (dove è il discorso di fondo ad essere più importante del personaggio), Weir concentra tutta la sua attenzione su quel non detto che, pur se generato dall’azione, resta sempre al di là del mondo dell’azione. Quando si accosta ai propri personaggi il regista sembra avere la segreta ambizione di cogliere nell’inquadratura non solo il loro semplice essere nel mondo, ma anche il loro senso ultimo. Poeta dei sentimenti, ma più ancora poeta della rivelazione di un sentimento (sia esso smarrimento, amore, paura o timore), Weir costruisce ogni suo film perché esso possa essere scrigno dell’illuminazione di un “altro” sacrale. Ed è per questo che la poesia di Master and Commander è tutta da ricercare nei momenti di bonaccia, nei primi piani (tutti bellissimi) dei componenti della ciurma, nelle brevi parentesi musicali, nello spazio bianco tra un’inquadratura e l’altra e in quella distanza tra la lente della macchina da presa e l’attore (partecipi entrambi in un cinema che è tanto d’attore quanto d’autore) che solo lo spettatore può riempire di senso.

[dicembre 2003]


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