NIGEL CHARNOCK

BERLINO/LONDRA - HAU e Robin Howard Dance Theatre - FRANK - Nigel è realmente tornato (is back) come recita il programma di sala, anzi tornado, e si salvi chi può soprattutto tra i Tedeschi - questa estate allo Hebbel Am Ufer 1 di Berlino, ospitante il festival internazionale Tanz im August, e oggi a The Place. Una tale energia performativa può nascere solo da una esplosione di rabbia pari allo scoppio dell’atomica, quel tipo di sana rabbia contro ogni autorità, parte costituente della cosiddetta “società”, che già il da lui fondato gruppo DV8 esprimeva con forza. Ma è soprattutto contro l’immagine consueta della società teutonica, e tutti i miti che ad essa afferiscono, che questo “Frank” berlinese si rivolge, sfornando e deflorando uno dopo l’altro tutti i baluardi del ben pensare, del politically correct e dove possibile anche dell’uncorrect, giocando con gli scheletri più torvi che si possano andar a riesumare: stragi, terrorismo, antisemitismo, olocausto, stupro sessismo e il loro nutrimento, i vari buonismi e pater(mater)nalismi. Innanzitutto “Frank” è allucinatorio per la velocità supersonica con cui sia i movimenti, sia il canto, sia il coordinamento dell’uno con l’altro sono attuati. Poi, dopo lo shock iniziale, capiamo che la teoria sulla quale Charnock fonda il suo pensiero e quindi la sua arte è quella dell’urto: prendere il lato oscuro dell’uomo e dispiegarlo, perché marcisca dei suoi stessi veleni. Dopo ci si sente ripuliti, è appunto questa la “catarsi” scenica? In Germania è impossibile perfino nominare certi argomenti-tabu della storia, Charnock ci, per parlare con la necessaria chiarezza, caca sopra. Ma forse perché sa, e sente ancora molto bene nonostante la lontananza di Piero Manzoni e dei suoi, che la merda d’artista è sacra, e in parte è anche su questo che lo spettacolo si gioca: la potenza irrefrenabile, che si direbbe proprio trascendente, del desiderio del corpo e la consacrazione che la figura dell’artista reietto/dell’artista divino conferisce alla sua opera. Prova ne sia che Charnock ci istiga a “sniffare” i suoi mitici calzini, calzini di “dancer’s feet”, lanciandoli su di noi. Nel rito del palcoscenico tutto è redento ed effettivamente è più utile una “lezione” di Charnock che 80 documentari sugli orrori del nostro secolo. Rinfrank-ante e intrigante, attendiamo con ansia il suo prossimo “schiaffo al pubblico". Luci: Rachel Shipp. Produzione: Biennale Venezia
