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Il figlio di Saul. L’uomo che ride

Pubblicato il 1 febbraio 2016 da Veronica Flora


Il figlio di Saul. L'uomo che ride

È quando Saul si confonde con gli altri. Quando lo perdiamo di vista, indistinguibile tra i cumuli di camicie logore lasciate e prese, i cappelli scambiati, le giacche lanciate. Abbiamo paura che esca dall’inquadratura, che venga trascinato nel fuori fuoco. Afferrato per un bavero da un kapò o da un tedesco che lo prendano per un ebreo qualunque, mentre noi proviamo a cercargliela addosso, sulla schiena, quella odiosa X di pittura rossa che dovrebbe risparmiarlo da chissà quale destino indicibile. Per quanto tempo poi? Per una ventina di giorni almeno, questa dovrebbe essere la data di scadenza della loro garanzia, della loro sicurezza. Venti giorni sono abbastanza come orizzonte del destino di un appartenente al Sonderkommando, gruppo di prigionieri scelti che collaborano con le SS nelle attività di sterminio a Auschwitz. Le mansioni cominciano con l’accompagnare e tranquillizzare i prigionieri, farli spogliare con ordine e far sì che appendano gli abiti tutti intorno alla sala d’attesa, riponendo con cura oggetti preziosi di qualsiasi tipo in tasche facilmente memorizzabili, mentre una voce in tedesco lenta, calma spiega che dopo la doccia potranno rivestirsi, mangiare un boccone caldo e cominciare a lavorare. Sappiamo che non finirà così. Anche se lo sfondo è sfocato e sin dall’inizio è solo un emergere continuo, ininterrotto, quasi annoiato di corpi. Vestiti, nudi, verticali o orizzontali, avanti e indietro, come trasportati da un nastro mobile di fronte all’obbiettivo indifferente della macchina da presa che nel caos s’inchioda d’improvviso alla prima sagoma che emerge e gli viene dritta in faccia. Perché poteva essere lui o poteva essere un altro. Sappiamo bene dove ci troviamo, dove ci sta tirando dentro quel flusso scomposto di individui risucchiati verso le porte di legno delle costruzioni e poi dentro quelle pesanti di metallo, mute, delle camere a gas.
La tragedia dell’Olocausto. Così definiamo il genocidio perpetrato dalla Germania nazista e dai suoi alleati nei confronti degli ebrei d’Europa e di tutte le categorie ritenute indesiderabili - tra cui disabili, rom, omosessuali - che causò in pochi anni tra i 15 e i 20 milioni di morti di ogni sesso, età. Tragedia. Dimensione universalmente riconosciuta di sconfitta dell’essere umano, di fallimento di un’impresa che può coincidere con l’insuccesso, con la morte stessa del protagonista o dei suoi cari. Questo termine così interiorizzato dalla cultura occidentale tanto da rappresentare la condizione esistenziale drammatica per eccellenza trae origine dal nome di una forma teatrale nata nell’Antica Grecia che raccontava l’individuo che soccombe di fronte a forze imbattibili, ma che proprio nella sconfitta rivela umana grandezza e forza del “personaggio tragico”.
László Nemes lascia la tragedia incommensurabile sullo sfondo e comincia a occuparsi al limite della per-secuzione della vicenda di un singolo uomo. E quell’attenzione spasmodica diventa nel giro di poche scene anche la nostra. La nostra ma non quella di Saul che ha altro in mente, ché anche in lui sta crescendo un’ossessione. Qualcosa che appare immediatamente a chi lo circonda, e ai nostri occhi, strano, non razionale, al limite della follia. E sì che quell’uomo che dice di venire dall’Ungheria, quello straniero che capisce il tedesco è un tipo sveglio e può essere di certo utile durante la sommossa programmata per l’indomani. E poi, in un tale contesto, qual è il limite dell’anormale, dell’assurdo? Mentre tra gli uomini, ebrei e non, di nazionalità e lingua diversa appartenenti come Saul al Sonderkommando, per i quali sta per scadere il tempo concesso insieme al privilegio di pulire faccia a terra i litri di sangue che stagnano ad ogni giro di camera e di trascinare fuori i corpi e di impilarli e di infilarli nei forni crematori, si medita una rivolta armata, Saul si mette in testa qualcosa che nessuno di noi in quella situazione penserebbe forse mai di fare. Ma Saul è un eroe tragico e la sua è una classica storia tragica di cui siamo testimoni in tutti i suoi passaggi: il personaggio si pone un obiettivo da raggiungere e lo persegue a tutti i costi lottando contro forze più grandi di lui per la riuscita dell’impresa. Non solo. Il riferimento alla tragedia greca passa anche per l’oggetto della ricerca del protagonista: la sepoltura di una persona cara. Di un figlio, afferma Saul. O forse dell’idea di un figlio o dell’idea di un figlio dell’uomo che potrebbe essere tra i corpi che sta spingendo ora con sollecitudine verso quelle porte di metallo. Poco importa. Il pensiero corre subito ad uno dei protagonisti per eccellenza della tragedia greca: Antigone, figlia di Edipo, che decide di dare al corpo di Polinice ucciso dal fratello Eteocle quella sepoltura che Creonte, suo zio e nuovo re di Tebe gli nega, tacciandolo di tradimento. Con la giovane Labdacide Saul ha molto in comune. Arrivati a questo punto non esiste orrore che non abbiano conosciuto o, nel caso di Saul, compiuto, e questo innesca in entrambi i personaggi una trasformazione interiore che fa maturare in loro una volontà granitica di proseguire nei propri intenti. Le leggi che regolano l’universo, il regno dei vivi come quello dei morti, “(…) non adesso furon sancite, o ieri: eterne vivono esse; e niuno conosce il dí che nacquero. (…)” (Antigone, Sofocle, trad. Ettore Romagnoli). Saul si muove come in una bolla di atemporalità che lo rafforza, lo rende, in una maniera quasi surreale, intoccabile. Il sudario che l’uomo si carica sulle spalle e nasconde nella sua tenda con la cura che avrebbe riservato a un figlio vivo e amato non sconvolge più di tanto i suoi compagni di segregazione, così come la sua disperata ricerca di un rabbino che lo accompagni nell’ultimo viaggio. La sua rivolta individuale, autistica, contro il nemico, non condivisibile dai suoi compagni che operano per una rivolta senza speranza ma comune, inquieta e coinvolge al tempo stesso. L’inquadratura di Nemes si stringe sulle spalle curve e sulla faccia da nouvelle vague nel formato di un videogioco osceno dove la virtualità del pedinamento incontra la casualità del male sull’orlo della fossa comune. Tutto accade veloce, troppo veloce. Tutto insieme, troppo insieme. Eppure in questo affastellamento di immagini collaterali, di angoli cechi e cose che accadono, che immaginiamo accadano, si rivela distintamente quell’orrore assoluto che ancora una volta travalica la Storia. Il dolore di Saul e la sua nuova logica non hanno né spazio né tempo. I gesti sacri che cerca sono ebrei perché solo quelli conosce. La morte che gira intorno risuona delle leggi a cui si appella Antigone, assolute contro l’antiumano fuori e dentro di noi, inafferrabili come polvere nel palmo di una mano. Quando infine la fuga da quei luoghi innaturali sfocia in mezzo al bosco, l’inquadratura si allarga gradualmente a cogliere il fruscio degli alberi, l’apertura del cielo, spegnendosi davanti a una natura che riaccoglie nel suo grembo l’unica saltellante corsa che rispetta ancora le sue leggi, indifferente a un sorriso, alla follia umana.


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