Nuovomondo o dell’epica frantumata

La recente candidatura italiana all’Oscar per Nuovomondo di Crialese ci fornisce la possibilità di riprendere la discussione critica su quello che resta uno dei titoli più interessanti di questo periodo. Esempio di un cinema (italiano) che sa ancora osare, mettersi in discussione, tentare strade nuove.
Molto del fascino del film dipende sicuramente dalla sua struttura narrativa che, ad un esame attento, si rivela di un’incredibile limpidezza cristallina.
Tutto il racconto segue una precisa linea direttiva che và dai luoghi ancestrali di un’Europa in procinto di avviarsi verso gli orrori della Seconda Guerra Mondiale e un’America invisibile tutta protesa a confermare la propria egemonia economica e culturale sul piano globale.
In un racconto che, come vedremo, è totalmente dominato da dualismi archetipici e da contrapposizioni primarie questa prima distinzione non deve essere sottovalutata.
La Vecchia Europa è, fin dalle prime inquadrature, restituita allo spettatore come figura materna, una sorta di Madre Terra da cui tutto discende naturalmente e necessariamente. È una logica mitica e ancestrale, quella messa in quadro nel film, che si basa su una dimensione quasi panteistica e quasi preverbale (di qui la figura del sordo muto assolutamente di casa fra i suoni di natura).
Le figure sono sempre legate al suolo, sia che siano intente a scalare a piedi nudi una montagna rocciosa sia che si limitino a far muovere greggi di pecore. Quando non è necessario, a fini narrativi, un primo piano o un dettaglio, Crialese ricorre sempre a campi lunghi o lunghissimi che sorprendono i personaggi nella loro assoluta piccolezza nei confronti di una natura non domata, ma neanche ostile.
Il contatto diretto con il suolo è un elemento necessario per comprendere il senso stesso che i personaggi danno al loro “appartenere” ad un ambiente e ad una storia. I personaggi vivono nella terra e alla terra sono pronti a fare ritorno, le loro misere casupole sono integrate col paesaggio e si mimetizzano con esso quasi ne fossero una diretta estensione. Tutto ciò che è artefatto, costruito, voluto dalle mani umane non modifica l’ambiente circostante, ma si lascia da esso modellare diventandone parte costitutiva.
Il rapporto con la terra non è però del tutto pacificato, né reso con un senso di sentimentalismo d’accatto. La terra va vinta con il sudore della fronte, và scalata per trovare un contatto fattivo con la divinità, e diventa tranquillamente una tomba (quella in cui Salvatore si auto seppellisce poco prima della partenza) entro cui ogni forma di umanità può sciogliersi e perire. Il contatto è quindi fattivo, ma doloroso. La nuda roccia tenuta tra i denti dai protagonisti all’inizio del film, si macchia di sangue come offerta dolorosa ad un mondo antico che richiede sempre un suo tributo. Non è un caso, comunque, che il primo incontro con la civiltà corrisponda al momento in cui i personaggi indossano delle scarpe privandosi definitivamente di ogni possibilità di un contatto diretto tra corpo e suolo.
Dall’altro lato è l’America di Ellis Island. Un continente di cui non vediamo assolutamente nulla se non l’interno di un edificio anonimo e crudele come un ospedale. L’ambiente circostante, la Natura, la Terra sono state come fagocitate dalla costruzione che ne ha cancellato ogni traccia. Restano nudi muri e finestre cieche che del mondo esterno restituiscono solo la luce grigia di un cielo perennemente plumbeo e piovoso. È un mondo descritto con la lividezza del metallo e con la freddezza del ghiaccio dove le etnie si confondono, ormai private del loro contesto naturale, e si assimilano ad una Realtà meccanica, moderna. Le persone divengono ingranaggi di una macchina talmente grande da essere diventata invisibile.
Questi due poli del racconto, costituiscono anche i due segmenti narrativi esterni di una lineare struttura tripartita che chiude l’intero arco narrativo della pellicola. Tra di loro c’è solo il lungo capitolo del viaggio in nave.
Quando si comincia a guardare il racconto secondo questa direttiva ci si accorge di alcuni elementi fondamentali.
Il primo capitolo, quello dedicato al Vecchio Mondo da cui tutto proviene è anche quello governato dai soli suoni di natura. Non una sola musica di commento, neanche un brano diegetico entrano nel campo sonoro del film tutto intessuto dai suoni limpidi del vento, del mare in lontananza (quando comincia il viaggio dei disperati) e del silenzio. È il mondo delle madri (cerusiche, mediche e streghe), e delle famiglie, il ventre fecondo da cui i maschi si devono staccare per diventare uomini.
Il primo brano musicale extradiegetico che si affaccia nell’universo sonoro della pellicola lo incontriamo in città, nella scena dei ritratti, quando comincia ad entrare in campo la civiltà coi suoi miti e i suoi orrori (la prima e più piccola Ellis Island c’era già quando si era ancora in Italia). Ed è subito un intervento abnorme, ironico, cinico: una sorta di piccolo preludio che non è più parte costituiva del primo capitolo, ma solo diretta anticipazione del terzo.
La musica interviene più pesantemente nel secondo segmento narrativo e ne punteggia le pause secondo un percorso emotivo profondo. È la musica del corteggiamento (il tango che segue il balletto di primi piani sul ponte della nave) o la musica del ricordo (quella cantata dalla madre durante un momento di intensa nostalgia).
Oltre a questo cambia anche la struttura interna che unisce i vari momenti. Il principio imperante diventa quello della dicotomia. Dicotomia tra i sessi (separati maschi e femmine che occupano parti diverse della nave), dicotomia tra gli ambienti (il sottocoperta buio e affollato, il sopracoperta luminoso, ma indefinibile nelle sue nebbie caliginose) e, sottilmente, anche dicotomia tra classi sociali (qui solo accennata, ma portante).
Scompaiono anche i campi lunghi e lunghissimi, ormai sostituiti da primi piani e figure intere.
Se, come avevamo detto, antropologicamente parlando, il primo capitolo era quello dei maschi che devono diventare uomini, il secondo fa coincidere questo passaggio con la scelta della donna con cui condividere l’avventura del viaggio nel Nuovo Mondo.
Il terzo capitolo, infine, rilancia il discorso sonoro in maniera ancora più marcata. Se il primo segmento era quello interamente dominato dai suoni di natura e il secondo (dove ancora c’è spazio per il rumore del mare in tempesta e dello sciabordio delle onde contro lo scafo) era quello in cui cominciano a prendere corpo suoni diversi (musiche extradiegetiche, ma cosa ancora più traumatica i rumori maligni delle macchine e il suono della sirena), il terzo è, invece, quello del vuoto. Le musiche extradiegetiche perdono la loro posizione di controcanto lirico al racconto ed assumono quella di commento ironico dello stesso. L’autore, confermando la sua immedesimazione nei personaggi, diventa critico nei confronti del mondo in cui essi stanno andando a vivere ed esprime questa critica proprio attraverso un gesto eversivo alla Dreyer: dà parola al personaggio muto che, con la voce, rimanda a casa la figura della "Madre" ormai destituita, nella nuova realtà, di ogni funzione sociale.
Da tutto questo dovrebbe venir fuori un racconto intensamente schizofrenico (tre tipologie e tre modi di racconto) se non intervenisse, a far da collante, una precisa scelta stilistica: quella di far avanzare la narrazione non secondo le dinamiche di un percorso romanzesco, ma secondo le linee frammentarie di una serie di vere e proprie illuminazioni poetiche. E quella di Crialese, alla fine, altro non è che un’epica che si frantuma, sotto gli occhi attoniti dello spettatore, in una serie di piccoli, splendidi canti.
[Ottobre 2006]
