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Patria o muerte

Pubblicato il 1 novembre 2011 da Alessandro Izzi

VOTO:

Patria o muerte

Di Cuba c’è prima di tutto un’immagine sogno che s’è sedimentata nel cuore delle nostre abitudini: quella di un’isola circondata dall’oceano che sfida il colosso capitalistico a passi di danza e rum.
Poi c’è l’immagine polemica a far da specchio alle nostre cattive abitudini, quella ad esempio di un Michael Moore che scopre che le stesse medicine che si comprano in America qui costano assai meno perché il meccanismo previdenziale funziona assai meglio.
Infine, per i più fortunati che un po’ di storia del cinema se la portano nel taschino dei ricordi, c’è un’immagine storica che è quella dell’agit-film di Santiago Alveraz. L’immagine di un cinema urgente che celebra e definisce in fretta, senza orpelli, con un linguaggio franco che non ha il tempo di concedersi pompe magne e squilli di tromba, ma che sa comunque sempre muoversi guidata da un’idea. Lontana anche da quel Soy Cuba di Mikhail Kalatozov che doveva essere celebrazione sovietica della rivoluzione realizzata e che divenne prima di tutto saggio di cinema per il cinema in cui estetica e politica si confondono così tanto che non si capisce più chi viene prima e perché.
Tre immagini che dicono e confondono, che lasciano spazio franco alle dissolvenze lente che al cinema in genere vengono messe per confortare lo spettatore nella convinzione che, in fondo, il resto della storia lo conosce già e non ha bisogno di altre immagini a raccontarglielo.

Di Cuba ci sono poi storie che se ne stanno lontane dal nostro comune sentire. Profumate di sigari che superano l’embargo e che si portano appresso suggestioni alla Hemingway ed uno scarno tono giornalistico.
Oppure ci sono semplici operazioni nostalgia che, quando sanno prendersi lo sguardo dei grandi, diventano Buena Vista Social club.
Isola dell’utopia, applicazione incarnata del socialismo in terra, ma senza pax, Cuba nuota nel mare delle nostre contraddizioni e sembra chiedere al mondo documentari perché il cinema di finzione non può comprenderla in un solo giro di sguardo.

Oggi Vitaly Manskiy prende questo mondo e le immagini che ci circolano intorno e ne fa oggetto di canto.
Il documentario dichiara la sua dimensione fin dalla sequenza dei titoli di testa, dove compiacenti ragazze, coi loro corpi da urlo, ballano, in stanze povere e dalle pareti scrostate, di fronte a webcam impudiche. L’immagine del sesso, della sfrenata vitalità contenuta a stento in ambienti asciutti, che sembrano nascere dalla punta di pennello di un pittore impressionista. Figure di un mito tutto occidentale che ha già le dinamiche di Facebook e di Youtube e che è l’esatta negazione del Soy Cuba di cui, Patria o muerte, è, in fondo, il figlio polemico.
Il corpo giovane è, però, ad un passo dal cimitero e quando il film comincia per davvero noi spettatori ci troviamo di colpo nel pieno di una riesumazione di tombe, con becchini che maneggiano le ossa per far posto ai nuovi venuti nel poco spazio all’ombra dei foscoliani cipressi. E il contrasto non potrebbe essere più netto!
Non c’è più spazio per l’Eterno dell’ideale. Il caduco s’è mangiato tutto, come la salsedine fa con la vernice delle case. Ma tra le rovine c’è ancora spazio per le persone vere che pensano e che amano, che vivono e che sperano e che, con quattro parole, sono ancora capaci di dirti la loro vita e le loro aspettative.
Vitaly Manskiy concentra il suo sguardo sul mondo sconvolgente di un’isola che c’è e che, pare dirci il regista, non ha mai parlato per davvero. E il suo sguardo racconta il degrado e l’umanità che vi brulica dentro, ancora ansiosa di essere, con una sapienza fotografica che è il vero grandissimo pregio del film.


CAST & CREDITS

(Rodina ili smert); Regia e sceneggiatura: Vitaliy Manskiy; fotografia: Vitaly Manskiy, Leonid Konovalov; montaggio: Maxim Karamishev; musica: Maria Ushenina, Sergey Ovcharenko; produzione: Genfilm (Russia) con la co-produzione di Vertov. Real Cinema (Russia); distribuzione internazionale: ma.ja.de (Germania); origine: Russia, 2011; durata: 99’


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