Pensieri sparsi su Il gioiellino

Per essere protagonisti oggi bisogna giocare con tre punte, servono un giornale, una squadra di calcio e una banca, dice il senatore Crusco ad Amanzio Rastelli, patron della Leda, miracolo imprenditorial-familiare dell’Italia del dopoguerra.
Siamo nel ’92, il paese sta per essere scoperchiato da Tangentopoli, ma il senatore brinda alla caduta senza repliche della cortina di ferro, ora i mercati a disposizione dell’export nostrano si espanderanno a dismisura, tutti vorranno vivere all’occidentale, molti vorranno essere come noi.
E’ da questo preteso apogeo di uno splendore industriale figlio dei vecchi assetti della guerra fredda che prende spunto Andrea Molaioli per raccontare, in modo assai personale, la caduta di un’azienda che pare proprio essere la Parmalat di Calisto Tanzi.
Molti in questo week-end seguente all’uscita de Il gioiellino si sono schierati contro l’operazione, forse anche perché si allontana decisamente dagli schemi consolidati del film d’inchiesta, non instradandosi lungo i sentieri accidentati di un’ipotesi alternativa rispetto a quella venuta fuori dalle aule giudiziarie. Non si può però neanche dire che lo sguardo di Molaioli si sia dedicato precipuamente ai personaggi, scavandone gli angoli meno noti per cercare davvero di capire la psicologia di Rastelli, di Botta, dei manager, della nipote che poi sarebbe la figlia. Non è chiaro infatti alla fine che tipo di personaggio sia Tanzi e quali siano per chi ha scritto il film le sue responsabilità nella vicenda, se egli sia un profittatore e basta o un ingenuo, Gordon Gekko o un semplice falsario da "Banda degli onesti".
In questo interstizio ci sembra si snodi Il gioiellino, con molta attenzione a raggiungere un’atmosfera di sospensione, di irreale realtà, spesso accompagnando volti e sguardi con le musiche di Teho Teardo. E Botta, interpretato dal nostro attore più bravo e più redditizio, Toni Servillo, capace di portare da solo sulle spalle il peso di trame a volte troppo aleatorie, chi è per Molaioli, per Ludovica Rampoldi, per Gabriele Romagnoli, il trio di sceneggiatori? Un cinico ingegnere finanziario senza una vita privata, lucido e razionale, oppure un troppo fedele servitore di un’azienda e di un leader che avevano smarrito lo spirito dei vecchi tempi.
Botta e Rastelli, i due protagonisti del film, il ragioniere e il padrone, non sono degli uomini complessi, alle prese con decisioni difficili in un mondo che è diventato probabilmente spaventosamente troppo grande per un’azienda cresciuta sulla spericolata intuizione di un ragazzo di provincia. Sono due possibilità di personaggi di cui resta qualche brandello di vita intravisto dal buco della serratura.
Per questo alla fine del film il senso di smarrimento, di indefinitezza di ciò che si è visto prevale, non riuscendo a delinearsi né una storia pubblica, attraverso una ricostruzione di fatti, né una libera reinvenzione di persone di cui ancora oggi sappiamo molto, molto poco.
