PER UN PEZZO DI PANE

A soli 18 anni Fassbinder scava nel senso di colpa collettivo della Germania e scrive questo testo rimasto sepolto fino alla sua morte e riportato alla luce in Italia da Pierpaolo Sepe qualche anno fa. E’ sorprendente rintracciare tanta lucidità nei tormenti autobiografici del protagonista, un regista cinematografico a cui è stata data l’occasione della sua vita, dirigere un film sull’Olocausto. Ma qui Fassbinder si pone la stessa domanda sulla rappresentabilità di una simile tragedia che si è posto Peter Weiss in L’istruttoria. Come si può chiedere ad un attore di calarsi nei panni di un deportato di Auschwitz, costretto a scambiare prestazioni sessuali per un pezzo di pane? Il regista comincia allora a mettere in discussione tutto, carriera, affetti, famiglia, amici, schiacciato dalla coscienza impura di una classe e di una società - borghese - che troppo in fretta vuole chiudere i conti col passato. Il paradigma dei rapporti di potere, tema fassbinderiano, è qui elevato alla massima potenza nei rapporti vittima(ebrei)-carnefice(nazisti), come se Fassbinder avesse voluto affrontare le ferite sanguinanti della sua nazione in parallelo a quelle di una coppia, in questo caso il regista e la sua donna (una intensa Erica Urban, che propone un personaggio lunare e “uterino”). La forza che sprigiona dal testo trova echi cupi nella scenografia scarna, ferrigna, illuminata da tubi al neon, nel vibrante e ancestrale canto di apertura, in un’atmosfera di cieca colpevolezza che attraversa le parole e i gesti dei personaggi. I ritmi subiscono impennate ed improvvisi arresti, in un altalenare di pieni e di vuoti interessante. La scelta morale di Hans, il regista, non può che essere perdente, come si evidenzia nella scena da vaudeville in cui si rinnova il fatidico rapporto vittima-carnefice perpetrato da molti (la ricca borghesia tedesca) contro la vittima sacrificale (il cameriere). La piéce, giunta al suo secondo anno di vita, e con l’attore protagonista sostituito da un convincente Massimiliano Cutrera, soffre qua e là di momenti didascalici - quasi che l’argomento ne invocasse la necessità - che non intaccano un solido impianto teatrale.
[aprile 2004]
Di Rainer Werner Fassbinder
traduzione: Roberto Menin; regia: Pierpaolo Sepe; interpreti: Massimiliano Cutrera, Erica Urban, Aglaia Mora, Nicola Sisti Ajmone, Ugo Giacomazzi, Diego Sepe, Sylvia De Fanti, Roberto Salemi, Leonardo Maddalena; scene: Francesco Ghisu; costumi: Gianluca Falaschi; produzione: Nuovo Teatro Stabile D’innovazione.
