Peter Greenaway: il cinema per amore unico del cinema, oltre i suoi limiti

Il più recente film di Peter Greenaway, quell’Eisenstein in Messico presentato all’ultimo Festival di Berlino, si è posto nell’alveo dell’opera e della poetica del cineasta gallese, rilanciandone a nostro parere la vitalità, proponendo una narratività a nostro avviso diversa da quella cui Greenaway ci aveva abituati, per una biografia che oscila tra Vita e Arte, tra Documento e Invenzione. E segnando un ritorno all’inizio della sua carriera, laddove Greenaway ha affermato di avere fatto per la prima volta da adolescente la conoscenza dell’opera del rivoluzionario regista lettone-sovietico, rimananendone estremamente affascinato, a causa dell’attenzione di costui verso una sperimentazione che intendesse il cinema principalmente come arte a sé stante, nella parole di Greenaway un cinema ricchissimo di inquadrature, attratto dalla violenza dell’azione e lontano dalla narrazione prosaica, abbracciando piuttosto l’uso della metafora e delle associazioni per immagini.
Uno stile, questo, che si potrebbe avvicinare a quello del cineasta britannico, fonte di ispirazione per un artista a tutto tondo che ha utilizzato il medium cinematografico a proprio piacimento, svalutandone appieno l’aspetto letterario in quanto racconto di parole da illustrare per immagini, centrando invece l’obbiettivo sull’aspetto più puramente audiovisivo dell’arte cinematografica, in particolare per quanto riguarda la componente figurativa, scevra questa da quasiasi dipendenza dalla parola scritta (pronuciata, anzi) come fondamentale veicolo di senso, con la sua propria successione logico-temporale; il tutto riprendendo gli insegnamenti di Samuel Beckett e del Teatro dell’assurdo riguardo la condizione esistenziale umana.
Si pensi a Le cadute (The Falls, 1980), il suo esordio nel lungometraggio, sperimentale mockumentary con voice-over e interviste dalla, opera di fondamentale importanza all’interno della storia di tale sottogenere che tanto successo – di pubblico anche - ha ottenuto negli ultimi decenni. Punto di arrivo, The Falls, di una ricerca poetica e di stile che un trentottenne Greenaway aveva iniziato svariati anni prima, fin dal 1966, trovando il bandolo della matassa di una estetica che divenisse espressione di una visione del mondo. A cominciare dall’antipatia verso la classica narrazione cinematografica come racconto di storie, preferendo mostrare uno scorrere di quadri, colti in un gioco fortemente ironico e teorico. Si pensi ad alcuni dei suoi tanti cortometraggi che hanno rappresentato una importante palestra d’autore: Intervals (1969), H Is for House (1973), Windows (1975), Dear Phone (1978), fino alle vette di Vertical Features Remake e di A Walk Through H: The Reincarnation of an Ornithologist, mediometraggi questi ultimi, anch’essi datati 1978, ove per la prima volta compare il personaggio di Tulse Luper, scrittore che Greenaway fa passare come realmente esistito, portando ’prove’, secondo un procedimento che ricorda quello messo in atto da Jorge Luis Borges, ma che in realtà è un alter ego del regista.
Un mondo che appare fermo, quello rappresentato da Greenaway, criptico e – ancora Borges docet - labirinticamente senza uscita, giunto alla sua fine, financo oramai in putrefazione. Così è Lo zoo di Venere (A Zed & Two Noughts, 1985), altra opera cardine nella filmografia del regista e, a nostro parere, manifesto del suo dichiarato ateismo: protagonisti i fratelli siamesi (separati) Oswald e Oliver Deuce, etologi inseparabilmente croneberghiani (il film del canadese sarà realizzato tre anni dopo), irrimediabilmente colpiti dalla morte delle loro rispettive mogli nel medesimo incidente automobilistico, causato da un cigno. Esseri umani ed animali quindi, in uno zoo (nella fattispecie quello di Rotterdam) che è spazio comune di esistenza e condivisione nella natura, seppure in gabbia come per taluni esperimenti di laboratorio, ove l’etologia è la scienza che studia il comportamento animale all’interno del suo ambiente naturale, la sua capacità di rispondere alle situazioni che gli si pongono innanzi. Mentre la scansione ritmica del testo è dato da un documentario che illustra la teoria darwiniana sull’evoluzione delle specie e dal susseguirsi delle lettere dell’alfabeto, trait d’union tra le inquadrature al posto di una trama propriamente definita come tale.
Giacché, per Greenaway, il ruolo dell’autore cinematografico consiste nel realizzare sullo schermo le proprie idee, le immagini che scaturiscono dalla sua testa. Con estrema precisione, consapevolezza e controllo della materia creata. Un artista a tutto tondo, il gallese: studente presso una scuola d’arte, è divenuto pittore, illustratore, autore di installazioni, scrittore di romanzi, montatore oltre che regista; per lui anche una breve parentesi come critico cinematografico. E tali suoi interessi (senza più di tanto sorvolare sulla cultura musicale, nonché su quella relativa le scienze naturali) possono definirsi come la base dell’enciclopedismo greenawayano, nozioni che vanno a riempire lo schermo, il quale diviene un quadro ai cui particolari occorre prestare estrema attenzione, in quello che diventa il culmine di un percorso del cinema d’autore, principalmente quello cominciato negli anni Sessanta. Il film saggio soprattutto, con la libertà e la precisione che questo permette e implica, sperimentazione a cavallo tra generi diversi, veicolo per la soggettività dell’autore, con numi che per Greenaway si chiamano Jean-Luc Godard, Alain Resnais e Chris Marker, senza dimenticare le opere e il lavoro a livello teorico di Ėjzenštejn, oltre quelli che il britannico ha definito come «Gli entusiasmi visivi di Vertov». Una categoria cinematografica il film saggio – e non un genere - che con Greenaway tocca apici che da semplice testo hanno trasformato l’oggetto film in un ipertesto, come ancor più accentuato dall’utilizzo del digitale in talune sue opere: la shakesperiana L’ultima tempesta (Prospero’s Books, 1991), l’esperimento televisivo M is for Man, Music, Mozart (1991), I racconti del cuscino (The Pillow’s Book, 1995) e Le valigie di Tulse Luper: la storia di Moab (The Tulse Luper Suitcases, Part 1: The Moab Story, 2003), prima parte cinematografica, questa, di un ben più ampio e strabordante progetto multimediale. E tutto ciò può evidenziare la poetica di un artista che l’enciclopedismo utilizza sì, però assieme a una profonda ironia allorquando ne sottolinea i limiti nei suoi tentativi di definire la realtà: quella sociale come quella naturale, giacché l’avere dato un nome agli oggetti, averli dunque classificati, è servito per fornire un ordine al mondo; un ordine che però sfugge o che forse, addirittura, si trova solamente negli occhi di chi guarda, delineandosi quindi uno sforzo del tutto inutile dal punto di vista oggettivo, risultando del tutto inutile il tentativo di dare ordire al Caos della vita.
Negli esempi appena citati le parole sempre più si fanno segni grafici, rielaborando teorie già proposte lungo vari cortometraggi e i mediometraggi degli esordi, divenendo parte del quadro visivo proposto, ancor più sottolineando come in Greenaway l’apparato verbale sia un sovratesto che integra quello visuale, e non viceversa.
Riguardo poi il presunto ordine del mondo si pensi, nuovamente, a Lo zoo di Venere: alla sua insistita simmetria (nei concetti, nei personaggi, nelle inquadrature), dualità e perfezione che verrà però spazzata via dall’informe, destino comune a tutta la natura, colta all’interno del tempo che scorre, inesorabile, fino alla fine. O, ancora, a I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982), ambientato alla fine del Seicento, film cartesiano ove protagonista è un disegnatore che scoprirà suo malgrado di essere rimasto coinvolto in un intrigo di aristoratici, artista che verrà utilizzato dalla classe dominante, con chiari riferimenti a Blow-Up di Antonioni e al ruolo dello sguardo nel percepire e rappresentare la realtà, entità quest’ultima talmente complessa da risultare impenetrabile. Riferimenti al film inglese del cineasta italiano che con prepotenza torneranno pure nel successivo Lo zoo di Venere, tripudio di dispositivi atti a catturare la realtà: dalla pittura (continue riproduzioni del seicentesco ritrattista di interni borghesi, l’olandese Jan Vermeer) alla fotografia, fino agli schermi cinematografici e anche televisivi, per un tripudio di arte espansa, apparato figurativo che spazia dal Seicento fino all’età contemporanea di luci e colori industriai, arte espansa che trova nel cinema una propria esaltazione, con Greenaway che pone il medium – o lo riporta, come era ai tempi del muto – all’interno della categoria dell’arte figurativa, inserendolo perciò in quel percorso umano che la storia dell’Arte è.
E barocco è il termine che spesso è stato accostato al cinema di Peter Greenaway, a causa della strabordante ricchezza delle immagini che propone. E, in ogni caso, molti riferimenti figurativi e storici riprendono sì il Barocco, ma soprattutto il Manierismo, periodo di transizione storico-artistico situato tra i maggiormente definiti Rinascimento e, per l’appunto, il successivo Barocco. Transizione che coincide, secondo Greenaway, con una incertezza culturale, al pari del periodo che da decenni stiamo noi vivendo.
Tali ripetuti riferimenti visivi, assieme alle inquadrature spesso lunghe e ferme, oltre che rendere lo spettatore prigioniero di quel mondo che gli si pone davanti, gli permettono di (tentare di) decifrare l’immagine, in un’epoca nella quale l’individuo, a differenza che nei secoli precedenti, seppure più alfabetizzato (oppure, proprio a causa di ciò), rimane maggiormente passivo nella decifrazione di un’immagine, tempestato come è ogni giorno dalle immagini.
Tale aspetto teatrale del cinema di Greenaway, poi, tale suo dichiararsi fin dall’inizio come costruita finzione, assieme alla secondarietà della trama letteraria e a personaggi che sono più figure che individui dalla approfondita psicologia e più materia e corporeità che spirito, impedisce al pubblico di immedesimarsi, mantenendolo a una certa distanza da quanto è raffigurato, allo stesso tempo permettendogli di poter meglio osservare e prendere così coscienza dello sfacelo umano. Così come accade nel dramma morale Il bambino di Mâcon (The Baby of Mâcon, 1992), ambientato nel 1659, rappresentazione teatrale di fronte a Cosimo III de’ Medici e alla sua corte, per un’opera che è violento gioco che continuamente oscilla tra finzione e realtà che viene intesa come finzione, crudele messa in scena che parla di cinica sete di potere e di denaro, al pari di una profonda ingenuità, scagliandosi Greenaway molto anche contro la Chiesa di Roma.
Laddove fortemente politico è pure Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover, 1989), attacco diretto alla volgarità di una società basata sul denaro e sull’ostentazione dell’eccesso, pure riguardo un bisogno primario quale il cibo è, quasi richiamando una ferreriana grande abbuffata, mentre nel Regno Unito andava profilandosi la fine (?) dell’era thatcheriana. Mentre in questo caso, l’Eros e il Thanatos, sempre presenti nella filmografia greenawayana (in quanto a suo parere gli unici elementi irrinunciabili, non negoziabili e basilari, alfa e omega dell’esistenza umana), toccano estremi forse ancor più distanti: dall’essere umano come oggetto e dal cannibalismo al sesso in quanto calore che è ricerca di salvezza, così come la cultura e l’amore verso i libri.
Cibo che era già stato ben presente in Il ventre dell’architetto (The Belly of an Architect, 1987), ambientato in una Roma i cui ruderi, i cui monumenti, le cui bellezze che spaziano dall’epoca classica al Barocco fino al Neoclassicismo e al Razionalismo dell’Eur, sono la morte che colpirà, facendolo impazzire, il protagonista, l’americano Stourley Kracklite, il quale si immedesimerà nella sua ossessione per il grande architetto francese Étienne-Louis Boullée, eroe del Neoclassicismo francese del Settecento, con le sue linee razionali, colto, Kracklite, da una forma di estrema incomunicabilità col mondo circostante, tanto da ritrovarsi in poco tempo esautorato del suo ruolo di curatore della mostra sull’artista francese, al centro di intrighi economici e di potere, oltre a perdere l’amore e il rispetto della moglie, il cui ventre è gonfio del loro bambino.
Così come di tradimento, attraverso un’ironia facilmente percettibile, parla il successivo Giochi nell’acqua (Drowning by Numbers, 1988), commedia nera e macabra dove tre donne - femminilità e rapporto uomo-donna che spesso sono stati protagonisti in Greenaway - si sentono deluse chi dai tradimenti e chi, in ogni caso, dalla mediocrità dei propri mariti, arrivando ad ucciderli, sullo sfondo di inquadrature che dal Rinascimento giungono fino alla Pittura metafisica.
Costruisce e, allo stesso tempo, decostruisce Greenaway, di continuo, autore di strutture che sono architetture visive, secondo un montaggio orizzontale e un pensiero laterale (come il Fellini di 8½, omaggiato in maniera esplicita nel 1999 attraverso 8 donne e ½) che passa attraverso ripetizioni all’interno dello stesso film (rifacendosi ad Alain Robbe-Grillet e al Nouveau Roman, laddove Grillet e Marguerite Duras sono stati sceneggiatori rispettivamente de L’anno scorso a Marienbad e di Hiroshima mon amour, innovative opere sullo spazio e sul tempo realizzate da Alain Resnais nel 1961 e nel 1959, regista fondamentale nella carriera di Greenaway; e lo storico direttore della fotografia del regista bretone, Sacha Vierny, divenne collaboratore abituale di Greenaway dal secondo film, Lo zoo di Venere del 1985, fino al 1999 di 8 donne e ½, poca prima di morire nella primavera del 2001); ripetizioni che investono pure la sfera della colonna sonora musicale, rielaborando temi della musica colta dei secoli passati (approccio che ha visto molte volte il lavoro di Michael Nyman, esponente del minimalismo musicale e compositore per Greenaway dal 1967 al 1991).
Quello proposto da Greenaway è uno sguardo lucido e freddo, dove il sesso e i corpi nudi non significano erotismo, in un’epoca, la nostra, a parere del gallese colpita da una crisi e perciò capace unicamente di guardarsi indietro, verso le basi dell’esistenza umana, ossia Eros e Thanatos, dalle quali tutto il resto dipende, tutto il resto discende, in un rapporto tra estasi e materialismo che permea l’intero cinema dell’autore britannico, cineasta che nella sua carriera ha proposto tutta la storia del cinema, riportandolo al suo grado zero, liberandolo dalle sue pastoie.
Arte, quella cinematografica di Greenaway, che è parimenti teoria e visione dell’arte sull’arte e del ruolo dell’artista nella e di fronte alla società, di fronte alla sua committenza, della sua responsabilità nei confronti della gerarchica organizzazione umana. Si veda Nightwatching (2007), teatro e pittura filmate attraverso l’utilizzo della computer grafica, biografia di Rembrandt e del suo quadro Ronda di notte, causa della rovina economica ed umana del grande pittore del Seicento olandese, investito da una cospirazione all’interno della classe dirigente che lui tentò di portare alla luce e ricacciato in basso da quella classe sociale cui lui aspirava essere vicino (come accaduto al Mr. Neville de I misteri del giardino di Compton House, artista bravissimo nel ritrarre ma non altrettanto nel capire quello che la realtà rappresentata sta dicendo, giocatore che si ritroverà giocato da chi l’intrigo ha messo in opera e cacciato addirittura tra le tenebre di una morte violenta e precoce); lavoro, quello di Greenaway, tra finzione e ricostruzione iconografica di un passato storico e che gioca sul terreno se non del certo, comunque di un possibile, tra l’altro probabilmente non confutabile. Mentre la Ronda di notte tornerà in Rembrandt’s J’accuse (2008), documentario didattico che è un’educazione rivolta allo spettatore moderno affinché meglio riesca a guardare un’immagine e ciò che essa nasconde, quello che essa intende rivelare attraverso i simbolismi utilizzati (laddove il cinema, pittorico, di Greenaway proprio di significati simbolici è pieno), senza il bisogno di una spiegazione che passi attraverso la parola.
E il rapporto tra artista e committenza, tra libertà e coercizione, tra creatività e Potere, torna in Eisenstein in Messico, biografia che il passo di un film di Ėjzenštejn ricostruisce. Lavoro che parla di Eros, Thanatos e di tabù (ove i tabù sono proibizioni poste dalla collettività sociale a protezione di sé stessa contro l’iniziativa individuale, proibizioni delle quali spesso le religioni si sono fatte portatrici, a seconda delle loro culture di provenienza), come il precedente Goltzius and the Pelican Company (2012), altro film che narra di vita, arte, rappresentazione e riproduzione, mescolando cinema, teatro e spettatorialità in modo esplicito, come Il bambino di Mâcon ma con, in più, l’utilizzo delle nuove tecnologie visive che non fanno che aumentare l’ibridazione del linguaggio, per un autore che ha fatto della mutimedialità la sua ricerca artistica, la propria ragione di una vita, sulla strada delle avanguardie storiche, oltre i limiti del cinema narrativo.
