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Pinocchio

Pubblicato il 24 marzo 2008 da Alessandro Izzi


Pinocchio

ENTE TEATRALE ITALIANO - TEATRI NELLA RETE - IL TEATRO DEL CARRETTO.
Per Disney Pinocchio è l’emblema dell’aspirazione alla medietas più assoluta. Il senso ultimo della fiaba vive nell’evento catartico, atteso e temuto a un tempo, della trasformazione del protagonista da burattino a bambino. Tutto ciò che anticipa questo momento topico, questo trionfo della magia e dell’incanto, è solo una serie calcolata di meri incidenti di percorso, gli elementi necessari perché un racconto “sia”. Quello che viene dopo, invece, non merita alcun tipo di narrazione. Il Pinocchio divenuto bambino è, infatti, il Pinocchio della normalità, è la quotidianità che trionfa sul fantastico, è la fine, per il narratore, di ogni desiderio di racconto. Del Pinocchio che perde la sua funzione di maschera e si fa carne, del bambino che cresce e diventa adulto, che si sposa, magari, e ha bambini, non importa niente a nessuno. Le sue eventuali preoccupazioni per un lavoro, per un tetto da tenere sopra la testa sono la cessazione di ogni poesia, fanno parte ormai della presunta vita vera.
Sia per Collodi che per Disney la parola fine viene prima che cominci tutto questo. La favola, il racconto si fermano un passo prima del nuovo inizio, della nuova vita del bambino normale. I motivi, però, sono diversi. Per Collodi un bambino normale che va a scuola è un bambino che disimpara a parlare con un gatto e una volpe, è un già quasi “adulto” che le storie magari continua a raccontarle, ma lo fa credendoci sempre meno.
Per Disney, invece, il Pinocchio adulto è una realtà da temere. L’approdo alla fanciullezza è l’unica cosa che conta per il grande produttore ed animatore. E il motivo della poesia del personaggio è tutto nel suo anelito al raggiungimento di un’infanzia normale che si identifica con l’aspirazione alla realtà della famiglia americana (con padre falegname, madre fatina e bambino a carico). Questo perché l’infanzia è l’unica cosa che conti davvero e bisogna operare ogni possibile sforzo per tenere in vita il fanciullino interiore che c’è in ciascuno di noi. Perché, fintanto che resta in vita, ci sarà gente che comprerà i biglietti per i cinema che proiettano film targati Disney e ci saranno persone che affolleranno i supermercati che vendono i pupazzi che da quei film provengono. Garantire la persistenza dell’infanzia nel mondo adulto è il sogno del produttore che conosce sin troppo bene la formula bambini = compratori e, quindi, consumatori.
Ma se torniamo indietro alla fiaba di Collodi ci accorgiamo che, nella sua vocazione squisitamente teatrale (si racconta la storia di un burattino che finisce in un circo e che mantiene sempre una sua riconoscibilità di maschera), non erano questi i temi che interessavano a Collodi.
Collodi non racconta tanto e non racconta solo il desiderio di diventare bambino di una maschera (il passaggio dall’immortalità della figura alla deperibilità della carne). Collodi narra prima di tutto la resistenza alla crescita, la volontà a restare bambini (e quindi burattini) quanto più a lungo possibile. Quelli che per Disney sono incidenti di percorso per Collodi sono indizi del malessere del crescere. Pinocchio dice ad ogni passo (troppo spesso per non destare sospetti) che vuol diventare bambino, ma ad ogni passo si lascia lusingare dalla chimera di fiabe che lo tengono ancorato alla sua infanzia.
Geppetto e la Fata Turchina, figure ginitoriali amate se non altro perché gli garantiscono una casa a cui tornare e un piatto di minestra, sono anche figure da cui fuggire perché il prezzo che pretendono per quel tetto e per quel piatto sono l’ingresso nel mondo adulto, l’assunzione di una responsabilità.
E’ a questa immagine di Pinocchio che si ricollegano Maria Grazia Cipriani e gli attori della Compagnia Il teatro del Carretto.
La nascita di Pinocchio è, per loro, già un atto di violenza che il mondo adulto compie su quello dell’infanzia. Pinocchio è, per Geppetto, già quell’asino del paese dei balocchi da mettere al giogo e domare a suon di frustate (mirabile il modo in cui i due momenti del racconto vengono “messi in rima” all’interno dello spettacolo). E il piccolo burattino non ancora bambino si trova sin dall’inizio diviso tra il desiderio di compiacere il suo babbo e la tentazione della fuga. Una divisione interiore profonda che urta col fisiologico “essere nel tempo” che ci fa crescere nonostante tutti i nostri sforzi a restare bambini. Del resto (e qui sta l’intuizione geniale) sia che ci rassegniamo ad una vita normale sia che continuiamo a fuggire nell’altrove della fiaba, siamo comunque, sotto un giogo e tra i tiri delle fruste. Frustati da una società che ci vuole omologati (dal SuperEgo, quindi) nel primo caso, feriti dai nostri stessi istinti di cui ci facciamo schiavi (dall’inconscio, quindi) nel secondo.
Maria Grazia Cipriani costruisce su queste premesse uno spettacolo dal fascino incredibile. Attraverso una scenografia minimale di muri neri che si aprono in porte e finestre che segnano l’irruzione dell’altro nel chiuso della coscienza di Pinocchio (sdoppiato, in voce, tra sé e Geppetto) si costruisce un’idea di teatro del sogno, o dell’incubo di incredibile efficacia scenica. La favola vive così nell’astratto gioco del rincorrersi di suggestioni che fanno piazza pulita dello stereotipo Disney e restituiscono alla fiaba i suoi momenti comici, ma soprattutto quelli tragici e finanche melodrammatici (Ridi Pagliaccio non l’avevamo mai ascoltato così).
Uno spettacolo denso di senso e ricco di emozioni.


(Pinocchio) di Carlo Collodi, adattamento e regia: Maria Grazia Cirpiani; con Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Jonathan Bertolai, Carlo Gambaro, Luana Gramegna; scene e costumi: Graziano Gregori; suono: Hubert Westkemper; luci: Angelo Linzalata


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