Quando un film segna una rinascita: GRAVITY
La dottoressa Ryan Stone (S. Bullock), ingegnere biomedico, è alla sua prima missione spaziale. Con lei c’è l’astronauta Matt Kowalsky (G. Clooney) che invece sta vivendo la sua ultima missione prima della pensione. Doveva essere una ricognizione di routine, ma l’imprevisto è dietro l’angolo.
Alfonso Cuaròn ci aveva lasciati nel 2006 con I figli degli uomini, con l’impossibilità di procreare e un Messia da salvare. Gravity ne è la diretta prosecuzione. Entrambi i film manifestano l’ormai evidente volontà del regista di utilizzare i vari generi cinematografici per trasmettere il suo messaggio d’impronta umanistica, espresso attraverso il principio del rinnovamento, della (ri)nascita individuale e allo stesso tempo sociale.
La storia è semplice, quel tipo di semplicità che spiazza per la quantità di metafore, sotto testi e significati dei quali è intrisa. Il legame indistruttibile e viscerale che una madre ha con la propria figlia, quel “cordone ombelicale” che nessuna mamma riesce, metaforicamente, a tagliare. Ancor meno quando la tua bambina ti viene strappata senza possibilità di rivederla, in un attimo, quell’attimo che non permette di realizzare veramente e di conseguenza conduce in un loopda cui si può uscire solo nel momento in cui la madre deve salvare se stessa. Non ha potuto salvare la sua bambina, ma ora deve pensare a lei, uscire dal loop e salvarsi, proprio ora che si ritrova sola nello spazio. Fin quando viveva sulla Terra poteva permettersi di rimanere nel tunnel, ma ora sceglie di sopravvivere per rinascere e ritrovarsi su quella stessa Terra in una maniera del tutto nuova.
Nelle inquadrature finali, con straordinario talento, il regista sceglie di inquadrare solo il piede della Bullock, che trova la forza di appoggiarlo a terra. Si alza fisicamente e si rialza moralmente con la macchina da presa che la segue, si alza con lei, come con lei si alza anche lo spettatore. In un attimo il pensiero va alle varie fasi evolutive dell’uomo preistorico, quelle fotografie conseguenziali (viste almeno una volta da tutti) che mostrano, in ultima, quella dell’Homo Erectus.
Il film è la storia di una rinascita solo che la gestazione dura 91 minuti piuttosto che i nove mesi tradizionali. A suggerirlo in maniera inequivocabile sono alcuni rimandi concettuali espressi in immagini. In primis la posizione fetale che, istintivamente, Ryan assume una volta riuscita a entrare nella capsula con uno dei tanti cordoni (ombelicali) del film, che le gira intorno. A seguire l’emozionante caduta dei detriti che a contatto con l’atmosfera terrestre ricorda l’altrettanto affascinante e folle corsa degli spermatozoi al momento della fecondazione.
Gravity riesce a far vivere tutto questo, e non solo, grazie agli studiati movimenti di camera: ogni stacco e ogni elemento trovano il posto giusto. La straordinaria colonna sonora contribuisce ad aumentare la tensione ansiogena che si respira durante tutta la visione, impreziosendo quello che apparentemente può sembrare il suono più neutro che possa esistere: il silenzio.
Cuaròn guarda alla fantascienza degli anni ’70 arricchendola con la spettacolarità che solo le tecnologie di oggi possono fornire. Un montaggio a dir poco perfetto che riesce a trasformare un genere cinematografico che più di tutti gli altri ha sempre rischiato di diventare, per lo spettatore, un mattone. Oltre a questo c’è un altro elemento fondamentale che non può essere trascurato per la visione di questo film perché, oltre alla Bullock e Clooney, è “ il ” protagonista: la sala cinematografica. Il film le restituisce la sua piena dignità, anzi per la sua resa migliore è legato a lei con un filo doppio. Quella più tecnicamente adatta a proiettarlo, con un sistema Dolby Audio Atmos e un 3D che dopo tanti film in cui è assolutamente inutile, trova il suo posto nella Settima Arte, come valore aggiunto e parte stessa della narrazione.