Re Lear
Considerazioni sull’utilità di uno spettacolo teatrale
Roma, Globe Theatre – Fiero e per niente nostalgico il Silvano Toti Globe Theatre, perfetta riproduzione dell’originale stabile dove Shakespeare mise in scena le sue inarrivabili piece, pare schiantato nel bulbo verde di Roma, il parco di Villa Borghese. La possibilità che l’organizzazione del Globe dona agli spettatori di potersi sedere per terra, ai piedi dell’alto stage, ricrea l’atmosfera di disorganizzazione del pubblico che verosimilmente si respirava nei teatri nel 1600. Davvero bello questo Globe! Tuttavia stona il fatto che sia stato (ri)costruito in una città che nulla, o poco, ha a che fare con quel tipo di spazio scenico, e semmai sembra avere dei crediti e non dei debiti con esso.
Re Lear: regia di Daniele Salvo, già regista di un Giulio Cesare ugualmente presentato al Globe l’anno scorso, è uno spettacolo che si inserisce nella tradizionale rassegna estiva dedicata a Shakespeare, nella splendida cornice di Villa Borghese a Roma. La proposta di Salvo appare simile ad una succulenta portata di cibarie servita su un piatto d’argento, dove ogni pezzo è armonicamente in ordine, nulla può essere messo in discussione, nulla deve essere problematizzato. Tutto ciò che si deve vedere e capire è…servito, pronto, lì, viene scansato con decisione qualsiasi tentativo di personalizzazione o rivisitazione in chiave contemporanea della tragedia, fatto salvo per alcuni accenti vocali che diffusamente gli attori mettono sulla frase “bisogna deporre i vecchi e far largo ai giovani”. Uno spettacolo che, azzardo, avrebbe fatto applaudire Shakespeare stesso per la sua eccezionale attenzione al testo, confermata per altro dalle tre ore complessive di durata. Gli atti sono rispettati, le scene sono rappresentate tutte, le battute importanti celebrate con gran sfoggio del talento di Ugo Pagliai. Insomma ciò che il genio inglese ha messo su carta è stato usato come libretto d’istruzioni per costruire il Re Lear di Salvo. Si nota un grande sforzo tecnico ed emotivo da parte degli attori (microforati!) che tuttavia sfocia in una emulazione dei personaggi troppo falsa, paradossalmente vicina allo straniamento (ma inconsapevole) che all’immedesimazione (obiettivo al quale, invece, palesemente, essi tendono); uno sforzo che produce solo grande stanchezza perché il compito di tenere gli occhi degli spettatori incollati sul proprio viso, apparteneva ad un’epoca passata e credo oggi non abbia più significato, anche perché sarebbe sufficiente, se fosse veramente solo questo il compito del teatro, rispolverare un DVD di Carmelo Bene.
L’uso delle video proiezioni per creare effetti visivi come la pioggia, l’eclissi, la porta del palazzo che si chiude, risulta a questo punto del tutto fuori luogo in questo concerto di fedeltà al testo, e se si aggiunge come aggravante la volontà di riprodurre lo spettacolo così come era nel 1600 in un teatro-copia dell’antico Globe, che ovviamente non poteva disporre di certi mezzi tecnologici, si capisce come queste proiezioni siano una scappatoia facile a problemi di risoluzione scenica.
Rimane, inattaccabile, il testo shakespeariano, che come al solito esplode di poesia e di lirica, esagera nella violenza verbale, si staglia, monolitico, sopra ogni altro oggetto drammaturgico. Ma a cosa serve, oggi, uno spettacolo teatrale che non rinnova minimamente il testo su cui si basa? A cosa serve raccontare, oggi, la storia di Lear, mitico re britannico vissuto secoli prima di Cristo? Prendo in prestito una affermazione di Mimma Gallina, (chi meglio di lei conosce il teatro in Italia?), per rispondere: l’utilità è il “perseguire una missione comune: quella di garantire la diffusione del teatro […] anche se sulle modalità, sull’omogeneità, sulla utilità stessa di questa missione si potrebbero esprimere valutazioni discordi”.
Re Lear
di: William Shakespeare
Regia: Daniele Salvo
Traduzione: Emilio Tadini
a cura di: Zètema Progetto Cultura e G.V. sas – Produzione Politeama s.r.l.