Venezia 77 - Residue
Residue è il primo lungometraggio di Merawi Gerima, regista afroamericano nato a Washington, un film che fin dalle dichiarazioni dell’autore non nasconde i propri intenti politici, ossia quello di dar voce a un mondo in via di estinzione, quello delle periferie urbane nere sottoposte vieppiù a un processo di marginalizzazione, di criminalizzazione e di gentrificazione, il tutto basato su un alto tasso autobiografico perché il protagonista Jay, egli stesso regista, torna esattamente nella zona dalla quale Gerima proviene, la periferia di Washington, per girare un film con questo esplicito intento memoriale e salvifico.
A partire da questa premessa Gerima dipana un film tutto sommato un po’ meccanico che mette in connessione tre diversi piani temporali che s’intersecano di continuo: il piano temporale dell’infanzia, una specie di età dell’oro in cui il mondo sembrava ancora possedere un proprio ordine, il periodo in cui si sono venute a formare le amicizie che producono quel senso di appartenenza di Jay a tutto un ambiente fatto soprattutto di compagni di gioco, di vicinato con le loro diverse storie qua e là solo accennate, vi è poi la seconda dimensione temporale, quella in cui si è prodotta la frattura col mondo, in cui alcuni amici prendono una cattiva strada e le tensioni etniche e sociali cominciano a farsi sentire, ciò che alla fine induce Jay a lasciare quel mondo e a tentar fortuna in California, segnatamente a Los Angeles, la Mecca del cinema, e infine c’è la decisione non si capisce fino a che punto consapevole (o magari dettata solo da una crisi creativa, chissà) di compiere il "nostos", di tornare a casa e appunto dar vita a quell’operazione di salvataggio che si diceva. Come avrebbe detto Celentano, torna e non trova gli amici che aveva, solo case su case, catrame e cemento. Quel che trova è un quartiere che ha perso la propria fisionomia, le tensioni fra neri e bianchi (che sono venuti a prendere possesso della zona) si avvertono in modo palpabile.
Vi è una scena in cui la madre di Jay aggredisce il vicino bianco colpevole di aver fatto fare la cacca al suo barboncino nel giardino; alle scuse del vicino, il quale dice che comunque avrebbe pulito subito, la madre di Jay risponde che in ogni caso un “residuo” rimane sempre, di qui – per l’appunto – il titolo. Anche se poi il titolo è pure da leggersi nel senso proprio di una mancanza, quel poco o pochissimo che è rimasto rispetto al passato, un residuo e basta: fra gli amici alcuni sono spariti, altri sono finiti in galera, altri ancora sono morti, le agenzie immobiliari stanno facendo la posta agli antichi abitanti non vedendo l’ora che si levino di torno. Jay si aggira così come uno zombie, con un senso di frustrazione, sospeso fra una voglia di urlare solo a stento repressa e la voglia di tornarsene da dove è venuto.
Il film, che si avvale di una bella colonna sonora seppur qua e là un po’ troppo riempitiva, finisce così per avere un andamento sovente onirico: Jay immagina, ricorda, sogna spesso e le immagini ne risentono facendosi sgranate, fluide e indefinite. Dopo un po’ questo stratagemma risulta un po’ stucchevole. Com’è stucchevole anche, sul finire, il ricorso al meta-livello, laddove Jay discute con un amico, esponendo per l’ennesima volta il proprio progetto cinematografico, memoriale e salvifico e sentendosi per tutta risposta ribattere che il suo è un atteggiamento paternalista, di chi con quel mondo di fatto non ha più a che vedere. E che chi è rimasto non ha bisogno del suo atto di salvataggio.
Qualche pregio formale, non si può negare, il film (che Gerima si è autoprodotto) ce l’ha, ma nell’insieme è ancora molto acerbo e il materiale complessivo è troppo scarso.
(Residue); Regia: Merawi Gerima sceneggiatura: Merawi gerima; fotografia: Mark Jeewvratnam; montaggio: Merawi Gerima; interpreti: Obinna Nwachukwu (Jay), Dennis Lindsey (Delonte), Ktaline Stewart (Blue), Melody Tally (Lavonne); produzione: ResidueDC; origine: USA 2020; durata: 90’