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(Ri)Scoprendo Gus Van Sant

Pubblicato il 26 gennaio 2009 da Viviana Eramo


(Ri)Scoprendo Gus Van Sant

Vai sempre a letto col Sistema, senza lasciargli pensare che ti possiedono completamente [Francis Ford Coppola, 1991]

Come i suoi personaggi, Gus Van Sant torna negli stessi luoghi. Il suo è un cinema in movimento, un cinema in cammino. Ma i suoi, come quelli dei suoi personaggi, sono percorsi reiterati, propensioni in avanti e insieme riavvolgimenti su loro stessi. Il regista continua a girare intorno le figure che da sempre sono stati il centro delle sue pellicole. Outsider e emarginati, drogati e adolescenti, sempre sul limen di una società che li rifiuta e/o non riesce ad assoggettarli.
Quello di Gus Van Sant è un andirivieni, tra cinema mainstream a medio-alto budget e cinema decisamente più sperimentale e autoriale, pur conservando inevitabilmente le stesse ossessioni di fondo, che si declinano in storie diverse eppure così simili. _ Con una duttilità che non è mai tradimento nei confronti della sua onestà intellettuale e ritmi produttivi anche sostenuti, Gus Van Sant entra e esce dalla grande industria hollywoodiana, vi partecipa e insieme ne mette in crisi i topoi.

Con Will Hunting e Scoprendo Forrester il regista abbandona il gusto visivo debitore di certo sperimentalismo che gli era tornato piuttosto utile nel disegnare le sequenze oniriche/allucinatorie dei suoi film precedenti, per dirigere invece in maniera decisamente convenzionale ancora una volta le storie di due ragazzi, outsider anch’essi, a loro modo. Se Belli e dannati e Drugstore Cowboy cavalcavano il mondo degli spossati drogati, ai margini di una società con la quale hanno rapporti conflittuali, i protagonisti delle due pellicole mainstream tornano ad essere dei ragazzi privi di una rapporto pacificato con la realtà che li circonda. Will e Jamal sono outsider, visto il talento da cui sono caratterizzati e che invece non dovrebbero possedere nell’ottica di un’ idea di stratificazione sociale che giudica il cervello in base al patrimonio. In entrambi i casi la possibilità di ritrovare un equilibrio gli viene offerta da figure adulte, paterne per adozione, fonte di confronto/scontro in un intenso scambio umano, le stesse figure assenti o fuori fuoco/campo delle pellicole più sperimentali. Will Hunting e Scoprendo Forrester snocciolano un percorso narrativo simile e piuttosto classico che va da ‘la scoperta del talento’, passa per ‘il confronto con il mondo adulto’ e giunge a ‘la pacificazione del ragazzo con se stesso e la vita’. Una parabola tipica che Gus Van Sant decide di seguire stando a guardare più che incidere sulla messa in immagini delle sceneggiature, non a caso tra le poche che non firma egli stesso. E quasi vien da sorridere a riguardare Will Hunting oggi, quando - nelle maglie di un racconto la cui pretesa è quella di assorbirci completamente coadiuvato da una regia che lo asseconda più che volentieri - seguiamo la macchina da presa nei corridoi di una scuola, il ralenti di una rissa fra coetanei e i movimenti avvolgenti intorno Robin Williams e Matt Damon in una delle scene cardine del film. Se qui questi gesti registici nemmeno accennano a tirarsi fuori da un’estetica mainstream e anzi la sostengono nell’economia votata a inseguire il racconto, nei film successivi quelle stesse scelte fanno capo a ben altre intenzioni. Nei pur ovvi happy end delle due pellicole si manifesta comunque una certa allergia al ‘Sistema’. Così la morte dello scrittore Sean Connery (‘figura mainstream’ per eccellenza) allunga un’ombra nera sulla serenità raggiunta da Jamal e il nostro genio ribelle preferirà raggiungere la sua amata (con l’auto assemblata dai suoi coetanei, in una sorta di artigianale risposta alla catena di montaggio) e ritardare così il suo ingresso ufficiale tra le fila di quelli con un posto fisso nelle altissime sfere. E’ la crisi del sogno americano, fasullo come la televisione che continua a sfornare i suoi figli, quelli che poi spareranno a Matt Dillon, ormai disintossicato convinto in Drugstore Cowboy. Ladro e drogato è il (post)moderno cowboy, in un (non) western in cui il protagonista esordisce con un’ammissione di sconfitta assoluta (‘non potevamo vincere’) e ruba medicinali e droghe in farmacie e ospedali. Non esistono eroi né Valori a cui tendere - soprattutto se il primo spacciatore della tua vita è stato il parroco del quartiere (interpretato non a caso da William S. Burroughs) - e pure la contrapposizione all’uomo di legge (sconfitto anch’egli nel mancato arresto del furfante) diventa quasi un siparietto comico. Le uniche leggi vigenti sono quelle del caso e della (s)fortuna, governabili solo evitando l’insano gesto di poggiare un cappello (da cowboy nelle allucinazioni che come figurine si stagliano in sovrimpressione sul viso del drogato Matt Dillon) su un letto.

E non è un caso forse che Gus Van Sant scelga un altro topos del cinema (western) e immaginario americano per dare inzio alla vera rivoluzione nella sua filmografia. Dopo l’esperimento pop del rifacimento di Psycho di Hitchcock che sembrerebbe il ponte che collega le sue scelte mainstream al capitolo invece più autoriale della sua filmografia, Gus Van Sant scrive insieme ai protagonisti, Casey Affleck e Matt Damon, il film Gerry (distribuito in Italia solo in dvd). La sceneggiatura è esile, agli antipodi di quella dei film mainstream in cui poco o nulla era taciuto, la regia di Van Sant si fa improvvisamente fatta di long take infiniti, di movimenti di macchina fluidi che seguono i personaggi,i n omaggio evidente e dichiarato al cinema dell’est europeo e in particolare a Bela Tarr. Gerry inizia come un road movie, ma da subito si percepisce quanto invece il film sia alieno al genere, nell’inseguimento dell’auto dei protagonisti a cui la mdp lentissimamente ci fa avvicinare e allontanare. Seguiamo i due perdersi nel deserto, dopo aver intrapreso un wilderness trail lontano da quella civilization che in realtà non abbiamo nemmeno scorto, visto che in auto i due sembravano già inghiottiti dal paesaggio e gli unici esseri umani che incontrano appena li intravediamo. Paesaggio di/della frontiera il deserto diviene protagonista assieme a questa coppia di omonimi ragazzi - dall’anonimo nome - nella beckettiana ricerca della salvezza. Il loro è un viaggio senza possibilità di orientamento, nella completa mancanza di segni cardinali di riferimento, nella progressiva e inarrestabile morsa di un paesaggio che si fa sempre più povero e ostile, fino all’abbacinante bianco finale dove si consumerà la tragedia che porterà alla salvezza, corrispondente all’abitacolo lindo dell’auto di una qualsiasi famiglia americana. Qui Van Sant non chiede al suo spettatore di seguire una storia, ma di seguire i percorsi che egli traccia intorno, dietro, dentro questi non- personaggi, dei quali non ci viene raccontato nulla. Si raccontano come fossero i sovrani di Tebe, persino il loro nome, nel loro anonimato, diventa sostantivo e verbo nei loro discorsi. Così Van Sant rielabora il dato reale (il film è ispirato a un fatto di cronaca) in un racconto autoreferenziale la cui materia narrativa è costituita propri dai movimenti di macchina, percorsi nella morsa del paesaggio in cui l’horror vacui è scandito proprio dagli spostamenti dentro di esso. _Elephant non fa che muoversi su questa stessa linea, segnando una maturità maggiore nei confronti della costruzione del tempo narrativo, che si declina ancora attraverso i percorsi dei protagonisti, qui incrociati e ripetuti, facendoci credere di inseguire uno degli studenti introdotti dai cartelli. Quella di Gus Van Sant non è nemmeno lontanamente la ricostruzione dei fatti della Columbine. Il senso dell’evento (reale) è disperso nell’autoreferenzialità dell’architettura temporale-spaziale, che nemmeno lo lascia sullo sfondo, piuttosto vanifica la possibilità di comprenderlo.
In Last days l’evento non è nemmeno esibito, l’ennesima morte annunciata non resta neppure fuoricampo, addirittura se ne prende coscienza solo dopo che è avvenuta, nel tradimento che Gus Van Sant perpetra allo spettatore che fino a quel momento ha seguito i percorsi reiterati di un ‘cliché del rock’n’roll’ sull’orlo della fine, in attesa proprio della sua morte. Così ancora una volta si instaura nel film una certa tensione tra l’illusione di un cinema diretto che dovrebbe restituire la realtà di un avvenimento e il costrutto elaborato della messa in scena. Esemplare il gioco di Gus Van Sant sul piano sonoro. Nella scena in cui Michael Pitt riceve una telefonata, il movimento che fa per riagganciare il ricevitore è direttamente restituito nelle sue conseguenza sonore, invece nella lentissima carrellata indietro che riprende il protagonista nel suo personale e disperatissimo concerto facciamo fatica a capire se la musica sia diegetica o extradiegetica.
Paranoid Park conferma l’interesse di Van Sant nei confronti degli adolescenti di Portland. Qui adatta un romanzo e - affidando il racconto al diario del protagonista- fa di questo l’ elemento ordinatore della messa in scena, ritrovando quella funzione scritturale in grado di mettere ordine al flusso narrativo, senza lasciare solo lo spettatore a ricostruirlo, pur immergendolo nel viaggio multiformato dentro le vicende e l’anima del giovane Alex.

E’ da qui che riparte l’avventura vansantiana, alle prese di nuovo con l’industria hollywoodiana e un film ad alto budget. In Milk, il confronto con il mito americano di nuovo si fa esibito, questa volta ancora più evidente nell’ascesa di Harvey Milk di cui seguiamo il cammino - da lui stesso ripercorso in un racconto rilasciato su di una cassetta - che ricostruisce gli ultimi suoi otto anni di vita, dalla vicenda intima e privata con James Franco fino dentro la vita pubblica di primo uomo dichiaratamente gay a ricoprire una carica istituzionale nell’America degli anni Settanta. Ancora una morte annunciata. Tuttavia, nel suo ritorno al mainstream, Gus Van Sant non abiura al proprio percorso autoriale, piuttosto in Milk ne individuiamo un’ ulteriore tappa. Quello che costruisce il regista non è un tradizionale biopic teso tra documentario e fiction, ma l’occasione per tornare ad interrogarsi(ci) sullo statuto dell’immagine e del suo rapporto con l’evento reale. Ecco allora che Gus Van Sant non si limita ad infilare immagini, filmati e trasmissioni dell’epoca nel tessuto fiction della narrazione, ma mette in moto una sorta di permeabilità di quest’ultimo al linguaggio documentario. Il prologo in bianco e nero che ritrae gli interni dei bar gay, i cui ospiti si nascondono davanti alla telecamera, non ripete la natura di siparietto con funzione meramente illustrativa che invece avevamo visto all’inizio di Scoprendo Forrester, dove la macchina da presa ci regalava sprazzi di Bronx. Qui i due livelli non sono solo uniti da un montaggio efficace, ma spesso succede come per un prodigio che la grana grossa tipica del reperto audiovisivo connoti pure le immagini dichiaratamente di fiction e quando Sean Penn scatta delle foto lo spettatore le visualizza in bianco e nero, come fossero (falsi) documenti. Non si tratta di un apologo in difesa della verità (storica) dell’immagine, anzi. L’immagine (mediatica) è frutto di riflessi e stratificazioni - allo specchio, in un fischietto, nello schermo di una tv - in un film in cui l’outsider protagonista rivendica la verità esibita, ma fa pure lui il gioco del sistema, facendosi immortalare alle prese con le feci dei cani. Questione d’immagine, appunto.
Come Harvey Milk, Gus Van Sant dimostra con questo film di saper andare a letto col Sistema, senza farsi possedere completamentee si riconferma Autore.


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