Ritratti - Corso Salani

L’inadeguatezza delle parole. L’inseguimento della situazione perfetta e dunque impossibile. La ricerca dell’evento casuale ma nello stesso tempo il fastidio verso ciò che non corrisponde alle aspettative. Un’ostinata ma malinconica solitudine in cui coltivare il rimpianto del passato o l’attesa di un futuro improbabile. In definitiva, la perpetua sfasatura tra il mondo interiore, regolato da sentimenti precisi e urgenti, e la realtà esterna, luoghi e persone, che non sono mai quelle giuste o arrivano al momento sbagliato. Vista complessivamente, l’opera del regista toscano, che agilmente si muove tra la fiction e spurie forme documentaristiche, affronta la condizione esistenziale dello sradicamento, che appartiene a chi ha effettivamente abbandonato la propria terra (gli immigrati in Cono sur, le donne slave occidentalizzate in Gli occhi stanchi e Occidente) come a chi si sente straniero da se stesso, ovunque vada (tutti i personaggi interpretati da Salani stesso che non a caso si chiamano sempre Alberto). Un argomento serio, doloroso, ma trattato in modo leggero, sottotono, spesso ironico. In Gli ultimi giorni (1992), ad esempio, l’Alberto di turno ha sette giorni per convincere la ragazza amata a sposarsi con lui anziché con il fidanzato ufficiale. Le sue croniche indecisioni, l’incapacità di trovare l’occasione giusta per parlare alla ragazza, le piccole bugie e i silenzi tesi, il tono vittimistico dei suoi maldestri tentativi per riconquistarla, producono angoscia ma anche un effetto comico, accentuato dai bruschi tagli di montaggio che interrompono sul nascere qualsiasi deriva mélo. Il tono si mantiene malinconico e lieve, nessuna scena melodrammatica scarica la suspence che si accumula rohmerianamente intorno al destino dei personaggi. A restituire il sottofondo patetico di questa minimale vicenda sentimental-esistenziale, perlopiù ci pensa la colonna sonora, che da Julio Iglesias alla supercinematografica A whiter shade of pale, accompagna scene volutamente trattenute e quotidiane. Gli ultimi giorni può essere giudicato, a posteriori, la prova generale di Occidente (2000), film più compiuto e maturo, anche per la maggior disponibilità di mezzi produttivi. Le scelte stilistiche sono in questo caso invertite o forse soltanto portate all’estremo. L’assenza assoluta di colonna sonora e i piani sequenza interminabili sottolineano la lunghezza del dialogo muto fra i due protagonisti, i cui incontri rappresentano per entrambi una fuoriuscita dalla dimensione quotidiana di un’esistenza già di per sé sradicata. Aviano, infatti, terra di nessuno, né Italia né America, non appartiene a Malvina, reduce dalla mancata rivoluzione rumena, ma neanche ad Alberto-Salani, palesemente a disagio nei suoi panni di professore in trasferta. Della sua vita attuale e precedente, d’altronde non sappiamo quasi nulla; l’attenzione del regista, a differenza dei primi film, è tutta puntata sul personaggio femminile e sul paesaggio, entrambi simboli perfetti di una perdita irrecuperabile dell’identità. Agnieszka Czekanska, attrice polacca, è il volto anche di Ewa in Gli occhi stanchi (1995), un’immigrata polacca che accetta di tornare al paese natio al seguito di una piccola troupe italiana (Corso Salani, Marco Chiariotti e Alessandro Piva, autore de La capagira, gli interpreti). Allo stesso modo che in Cono sur (1999), ambientato in Argentina, il viaggio è l’occasione per ascoltare delle storie. Quella di una ragazza slava, sbarcata carica di speranze in Italia all’inseguimento del mito dell’Occidente per finire rapidamente risucchiata nel giro della prostituzione e quelle, più svariate, degli immigrati europei disseminati tra Buenos Aires e la terra del fuoco. A lato, in Cono sur come ne Gli occhi stanchi, le piccole vicende della troupe, utili a costruire un tessuto narrativo e una qualità dello sguardo in questi film che ibridano felicemente, e modernamente, fiction e documentario. Concludiamo questa breve ricognizione sul cinema di Corso Salani con due note sull’esordio nel lungometraggio, Voci d’ Europa (1989): tre episodi, tre storie d’amore più o meno mancate, tre viaggi, tutti interpretati e scritti dallo stesso regista e da Monica Rametta (co-sceneggiatrice di tutti i suoi film). Impossibile non riconoscere, come fonti d’ispirazione, il primo Wenders, per la poetica del viaggio come mezzo di programmatico spaesamento, e il Rohmer dei Racconti morali per la messa in scena, attraverso sequenze volutamente de-drammatizzate ed ellitticamente giustapposte, della dialettica fra scelta e casualità. Ed anche per la messa in scena di un personaggio in flagrante contraddizione con se stesso.
[aprile 2001]
