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Ritratti: Mickey Rourke - Apologia di un looser

Pubblicato il 16 marzo 2009 da Carmelo Caramagno


Ritratti: Mickey Rourke - Apologia di un looser

Il firmamento hollywoodiano è da sempre la ribalta di forti personalità, sia in campo registico che attoriale. L’affermarsi di precise individualità caratterizzate da intenzioni artistiche e forme espressive singolari è ormai un dato incontestabile. Del resto, attraverso gli ingranaggi ben oleati del divismo e dello star system la potente macchina hollywoodiana è riuscita ad accumulare ricchezze su ricchezze, sfornando film come fossero prodotti di largo consumo e trasformandosi in breve tempo in una delle industrie più redditizie degli Stati Uniti. Da Greta Garbo a James Dean, da Marilyn Monroe a Marlon Brando, l’immagine personale degli attori, agli occhi del pubblico, è finita per sovrastare spesso quella dei personaggi da loro interpretati. Inoltre, la fascinazione di scuola Kazan e Strasberg e un certo “maledettismo” patinato hanno fatto sì che emergessero figure di eroi solitari, autentici “duri”, che riuscivano a concentrare tutta l’attenzione su di sé occupando letteralmente il film con la loro presenza, a volte ingombrante. In un epoca più vicina ai giorni nostri, esempi di questa tendenza sono rintracciabili in attori del calibro di Robert De Niro o Al Pacino, ma anche in loro talentuosi epigoni come ad esempio River Phoenix, scomparso giovanissimo, o Mickey Rourke. Proprio quest’ultimo, rappresentando il punto di contatto tra cambiamento e tradizione, con un fascino fuori dal comune e un’attitudine da dannato, è stato l’artefice di un rinnovamento espressivo in campo attoriale poiché è riuscito – grazie alla sue grandi capacità recitative unite a una spontaneità e naturalezza innate – ad interpretare il mito del maledettismo in chiave moderna, confermandosi come uno dei personaggi più controversi di Hollywood.

Ripercorriamone brevemente il cammino tormentato. Nel 1980 è il regista Michael Cimino a dargli la possibilità di mettersi in mostra con una piccola parte, in quella impresa titanica del film Heaven’s Gate (I cancelli del cielo), che costò il fallimento della United Artists a causa degli enormi costi di produzione e degli scarsi incassi. E prima ancora era stato Spielberg a offrirgli un piccolo ruolo in 1941: Allarme a Hollywood. Ma il successo non può che arrivare con un ruolo che lo identifica da subito come il bello e dannato per antonomasia: il giovane piromane Teddy Lewis del Brivido caldo di Lawrence Kasdan, neo-noir dalle atmosfere suadenti che accese la stella Mickey Rourke nonostante la sua breve apparizione. Successivamente l’attore statunitense si imbatte in dei personaggi che sembrano avere la sua stessa pelle, dall’enigmatico fratello maggiore di Matt Dillon in Rusty il selvaggio di Coppola al combattente poliziotto solitario de L’anno del dragone (nuovamente sotto le ali di Cimino), fino alla consacrazione di star e sex symbol mondiale in 9 settimane e mezzo di Adrian Lyne. Fin qui tutto bene, verrebbe da dire, finchè il successo non gli ha mostrato la sua faccia oscura e il matrimonio con Carrè Otis, modella conosciuta durante la lavorazione del film Orchidea selvaggia (esperimento soft-core riuscito male), gli ha tolto tutte le energie – finanziarie e non – consegnandolo definitivamente al mondo della boxe, ad un ring che è stato il suo primo amore giovanile e che ha segnato nel bene e nel male il suo percorso esistenziale. Prova ne è quell’ Homeboy di Michael Seresin, passato inosservato agli occhi del grande pubblico, che trae ispirazione proprio da una sua vicenda autobiografica: da piccolo, l’adolescente Mickey si rifugia sulla strada, in un ambiente a dir poco non straripante di buone intenzioni. Per difendersi dalle carinerie dei propri simili, obbedendo una volta tanto alle ingiunzioni del patrigno, prende a frequentare certe fetide palestre di boxe. Fa una decina di combattimenti, beccandosi un paio di commozioni cerebrali. Un giorno, a scuola, soffre un collasso psicofisico dal quale si deduce che rischia una lesione al cervello e che dunque non potrà boxare mai più. Ma l’arte di tirare pugni, fisici e metaforici, non smetterà certamente di riguardarlo. La vita condotta in maniera sempre più dissennata porta Mickey Rourke ad avere anche problemi con la giustizia, che frenano inevitabilmente il ritmo della sua carriera. Una carriera percorsa dunque tra luci e ombre, in cui spesso la vita privata è sconfinata nel set e viceversa, sostenuta da alcune prove convincenti (come il già citato L’anno del dragone e il sudato e sporco Angel Heart di Alan Parker), da altre a dir poco singolari (pensiamo all’incursione mistica in Francesco di Liliana Cavani o alla metamorfosi cruenta in Johnny il bello di Walter Hill) e da numerosi scivoloni (uno su tutti citiamo il ruolo da motociclista maledetto nell’imbarazzante Harley Davidson & Marlboro Man).

E arriviamo ad anni più recenti in cui, non avendo interpretato nessun ruolo significativo, l’immagine dell’attore nato a Schenectady era destinata a finire nel dimenticatoio. Ma grazie all’interessamento di Robert Rodriguez, che lo vuole in C’era una volta in Messico, Rourke sembra avere una seconda chance. Soprattutto perché qualche anno più tardi, nel 2005, gli viene affidato – sempre da Rodriguez – un ruolo di rilievo in Sin City, film che può essere considerato a tutti gli effetti quello della sua rinascita come attore (allo stesso modo di Pulp Fiction per John Travolta). Il personaggio del roccioso Marv del fumetto di Frank Miller, infatti, sembra essere stato scritto apposta per lui: un condannato all’esistenza, un emarginato, la cui unica ragione di vita sarà vendicare la morte di una prostituta che gli fece dono del suo corpo sebbene lui avesse delle fattezze simili a quelle di un mostro. Quindi Cimino prima e Rodriguez poi gli restituiscono la fama e il successo offuscati per molto tempo ma ampiamente meritati. Così siamo giunti al presente, dove si fa vivo inaspettatamente un "certo" Darren Aronofsky che, tenutosi lontano dagli sperimentalismi precedenti, scrive per Mickey Rourke una sorta di classica apologia dello sconfitto, cucendo addosso al suo fisico appesantito di ex sex symbol l’immagine del looser per eccellenza, quella dell’ex campione di wrestling Randy “The Ram” Robinson. Tolti i guantoni da boxeur, Mickey indossa una tutina verde fosforescente per salire di nuovo sul quadrato a combattere contro i suoi demoni. Muscoli gonfiati, abbronzatura da lampada vistosa, capelli lunghi biondo platino e il volto tumefatto (anche a causa degli interventi chirurgici subiti negli anni). La sua interpretazione è così autentica e profonda che ci ricorda quella di De Niro in Toro scatenato, tutte e due imparentate dalla volontà di non risparmiare nulla di sé per concedersi interamente e crudemente allo spettatore. Questa volta Mickey Rourke era tornato per vincere, ma come “The Ram” ha ottenuto solo l’incitamento e gli applausi del pubblico senza il trofeo che gli spettava. Probabilmente l’Oscar sarebbe stata la sua consacrazione definitiva, per una prova che difficilmente potrà ripetere in futuro, ma va bene così o forse meglio. Un vero guerriero nell’animo, come lo è lui, non ha bisogno in fondo di fatui riconoscimenti e da perfetto looser è uscito ancora una volta di scena, con un funambolico coup de théâtre, una ram jam diritta al cuore, un folle salto che dalle corde del ring va verso l’ignoto, verso il nero, verso il suono struggente e malinconico delle note di Bruce Springsteen.


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