Ritratti - Spike Lee, un maestro
La carriera di Spike Lee è una delle più sorprendenti. Non più il talentuoso indipendente ma un regista in poltrona con un grande sigaro in bocca. Nell’aneddotica del film è stato il primo regista black a raggiungere il box office e poi a lavorare per i grandi studios. In questi ultimi anni poi, ha spostato il suo centro tematico preferito verso una universalizzazione, impennando contemporaneamente la qualità dei suoi film, fino ad arrivare al successo de La 25a ora, riconosciuto dagli spettatori più diversi. Film realizzati con mezzi sempre più larghi, è vero, così come sempre più delineati nelle vicende, nei personaggi, e di formidabile impatto visivo.
E ora, con Inside Man, il solco del genere. Al purista potrà sembrare una concessione da far storcere un poco il naso, peggio, la fatale compromissione, seppur colta, col prodotto di consumo. Aspetto non nuovo quello del riferimento al genere, anzi supporto centrale nell’ultimo sviluppo del cinema di Lee. E anche quel tocco di commedia a insaporire la vicenda della rapina perfetta appartiene alle sue generatrici, così come era stato, negli inizi, con il sagace andantino di Lola Darling.
La capacità di determinare uno stile con cui descrivere le estreme conseguenze dei conflitti razziali/individuali dentro a quelli sociali e collettivi (primo piano e carrello sul protagonista con effetto di vertigine nel momento di massima tensione; i dolly velocissimi; le rassegne ritmate di fermo immagine di personaggi mescolati a rappresentanti di tutte le etnie, a esempio la sequenza di Edward Norton davanti allo specchio ne La 25a ora; alcuni luoghi tipici di NY, le giostre di Coney Island, un campo di basket qualsiasi) sembra infatti avere subito uno sviluppo formale profondo, una reinvasatura. Così, diciamo da He Got Game (1998) in poi, è subentrata una sorta di modellamento al genere. Che viene trattato come una nostalgia piuttosto che come una citazione. Nostalgia verso una maggiore densità e circolarità del racconto. Si parla qui di un genere ma è una sostanza stilistica che insegue certe desuetudini quasi come fossero un ideale scomparso, che proviamo a situare nel cinema degli anni ’50. Un cinema decontestualizzato e tranche de vie, drammatico e vissuto, utopistico e violento, semplice e potente allo stesso tempo.
Questa ricerca la si riconosce anche per l’uso delle musiche: le potenti orchestrazioni del classico Aroon Copland per He Got Game mescolate al rap; le tirate di fiati, trombe jazz freddissime ed etnomusic d’autore ne la La 25a ora come in quest’ultimo.
Questa escursione nel passato, si dirà, è pratica consueta ormai in molti registi USA della generazione di mezzo, spesso con precipui scopi (Howard, Soderbergh).
Ma Spike Lee fa raggiungere a questa mescolanza il calor bianco di una teatralizzazione che ritorna tutta a vantaggio e potenziamento dei personaggi, che dopo il trattamento ricadono in piedi, più veri nel loro essere comuni, dei piccolo borghesi addirittura, alle prese col dramma di affrontare una vita amara, impegolati in un way of life di infinita conflittualità.
Per tutto questo Spike Lee non sembra essere semplicemente quello che è, un autore a tutto tondo, quanto piuttosto un maestro, un innovatore cioè, capace direinventare la materia spettacolare del cinema americano e calarla nel bagno sociale. Un inventore, come è stato il King Vidor de La folla (1928): blocchi morali sfaccettati a furia di ritmo e contraddizioni stuporose. Perché la regola di questo cinema è farci scoprire a ogni angolo che stanno per succedere cose ma che tali cose potrebbero essere molto peggiori di quelle che stanno per accadere.
Così, in un film quasi divertito, senza la minima didascalia Lee ci dice di Guantanamo, degli incappucciati, di una nazione che imprigiona se stessa e prende in ostaggio i suoi cittadini, come nella scena dell’arresto degli ostaggi, sdraiati davanti alla banca, una citazione - questa sembra essere davvero tale - dei nudi collettivi fotografati da Spencer Tunick.