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ROMAEUROPA - EMIO GRECO

Pubblicato il 20 novembre 2005 da Paolo Sanvito


ROMAEUROPA - EMIO GRECO

ROMA - TEATRO VALLE. 17.11 - La scena è quasi completamente vuota e buia, la luce proviene dal punto più lontano. Una figura si staglia contro le luci sullo sfondo e si muove a contrazioni, molto lentamente, ma comunque non a passo di danza. Il suoi movimenti sono esplicitamente l’espressione di uno sforzo, lo sfogo per trasformarsi, uscire da uno stato ed entrare in un altro, e si basano sullo stretching specialmente verso l’alto - sembra sfuggire alla forza di gravità; l’accompagna un track musicale di musica sintetica, che potrebbe benissimo servire da accompagnamento ad una scena di film fantascientifico, o anche, a volte, con caratteristiche da litania di nomadi, come se ribaltasse l’azione in un paese africano, dove la musica è rito e strumento di elevazione spirituale. Grazie al particolare uso delle luci di scena (proveniendo dal fondo di essa, le luci ci accecano e fanno stagliare della danzatrice come un’ombra nera sul campo visuale) la figura sul palco sembra assumere l’aspetto di un’apparizione, di una visione non mondana. Questa caratteristica sembra mantenersi come una costante nel corso dello spettacolo. Ad un tratto si aggiunge alle musiche il verso di alcuni uccelli, un cinguettio. E capiamo che anche una parte del linguaggio gestuale dei danzatori, a partire dalla prima nell’assolo della prima scena, sono ispirati al mondo degli uccelli, ma in modo molto astratto; la rapacità, la fulmineità del loro movimento è ripresa più tardi, solo come suggestione generale, senza rimandi figurali, o puntuali, senza illustrare nulla di tangibile. Certamente, nell’essenza dell’arte stessa della danza è contenuto l’impulso a librarsi, a volare forse; ma appunto l’innalzamento del baricentro, il distacco da terra sono elementi primari della danza, non solo classica; e nel trio che segue, con tre danzatori tutti e tre uomini, questo aspetto della neutralizzazione del peso corporeo è molto forte, dando luogo a invenzioni coreografiche complesse e estremamente veloci, a movimenti a vortice che portano i loro esecutori a frequenti voli, con un paritcolare senso di leggerezza. In altri momenti, la scena si riempie di ampi movimenti delle braccia che fanno pensare vagamente a colli di cigno: ancora una volta non una esplicita citazione figurale, eppure convincente anche come forma astratta. Tutto “Conjunto di nero” è una escalation continua di invenzioni e deflagrazioni di vocabolario coreografico che conducono infine alla frenesia, alla compulsività; in alcuni casi ricordano, ma certo solo accidentalmente, le danze dei tarantolati tanta è la loro forza (Greco è di origine pugliese). La grande forza del brano è tuttavia soprattutto nel padroneggiare il linguaggio formale della scena, luci, ombre e assi visuali e di movimento, da una parte, con il linguaggio specifico corporeo e coreografico, con il “vocabolario” dei gesti dall’altra; esiste una sintonia perfetta tra l’uno e l’altro, così da offrire una fusione, un’unità di visione formale ultima che è rara nella danza contemporanea, anche nella migliore. Greco ha una severa, coerente formazione classica e si vede: il rigore e l’esattezza dell’esecuzione coreografica è straordinaria, ma del tutto singolare è la sua corrispondenza con l’arrangiamento registico di P.C. Scholten. A volte si direbbe che ci si trova davanti ad immagini precise (crocifissioni corali? Angeli, angeli combattenti/custodi o spiriti infernali?) ma si tratta soltanto di pretesti, per raggiungere un prodotto di alta definizione formale. Verso la fine c’è un’esplosione-finale, la scena cambia completamente e diventa una sorta di grotta dalle pareti scure, un’ambientazione onirica di vago sapore archetipico, un locus primigenius. Qui il movimento continua, o persevera nell’essere iperstilizzato, finché, con trovata geniale, un danzatore si trova al centro della scena inondato da una luce blu che si riflette sul suo corpo come se egli stesso fosse pura luce. E’come una fase finale della mutazione alchimistica, con tratti ancora una volta concitati, convulsi, e specialmente inquietanti: le luci che accompagnano l’azione ai quattro angoli del quadrato sono accecanti, conferendo al luogo un’atmosfera perturbante, perfino violenta. In questa visione allucinatoria, e progressivamente via via sempre più inquieta, si conclude lo spettacolo, in medias res, ma quindi anche mai calando di tensione. [novembre 2005]


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