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Salvatore - Shoemaker of Dreams

Pubblicato il 14 settembre 2020 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Salvatore - Shoemaker of Dreams

Troppo spesso ci si dimentica che il segreto della riuscita di un capolavoro, sia esso un imponente progetto architettonico, un vasto affresco sulle pareti di una residenza nobiliare, o un antico e prezioso tappeto, si nasconde nei dettagli. Se un architetto, o un artista, ne trascurassero anche soltanto uno, lasciandolo sbozzato o indefinito, l’armonia dell’opera osservata nella sua integrità ne risulterebbe compromessa o incompleta. Per il dettaglio, Luchino Visconti, che fu certamente tra i ‘registi’ per eccellenza, considerati i suoi diversi campi d’azione, dal cinema al teatro, all’opera lirica (dove pretendeva fiori veri in scena), nutriva un’ossessione maniacale, studiata e imitata da tutti i più attenti registi cinematografici delle generazioni dopo la sua: famose sono le dichiarazioni di Martin Scorsese a proposito della ciocca scomposta di capelli di Claudia Cardinale ne Il Gattopardo. Non c’è dubbio che, per varietà di stili e multiformità di interessi, tra i registi attualmente al lavoro che più potrebbero venire assimilati all’indimenticabile autore di Ossessione, Senso e Morte a Venezia, nonché rivoluzionario allestitore di spettacoli che tra prosa e lirica hanno lasciato segni indelebili nella storia del teatro, c’è Luca Guadagnino, il più interessante outsider di un cinema, come quello italiano, troppo angusto e formattato per contenerne l’intera tavolozza di creativo delle immagini in movimento, tra clip musicali e video pubblicitari, lunghi e cortometraggi di natura tanto diversa come Chiamami col tuo nome e Suspiria, o A Bigger Splash e The Stuggering Girl. Con curiosità onnivora, e raccogliendo l’invito forsteriano a ‘only connect’, cioè semplicemente connettere ognuno tra gli elementi più attraenti e interessanti del mondo globalizzato in questa era non più post-moderna, ma ormai già post-contemporanea, Guadagnino è difficilmente inquadrabile nelle categorie che generalmente, per pigrizia più che per comodità, appiccicano agli autori italiani quelle etichette che resteranno loro addosso finché campano.

E proprio all’ossessione ai limiti del feticismo per il dettaglio, per quell’accessorio indispensabile che, non solo nel cinema e nell’arte, ma anche nella vita, contiene spesso e volentieri il senso compiuto di un’intera esistenza votata alla ricerca della perfezione, Guadagnino ha dedicato un omaggio che suona come un inno di lode incondizionata con il suo nuovissimo documentario Salvatore, Shoemaker of Dreams (alla lettera: Il calzolaio dei sogni). Stimolato dalla pubblicazione per i tipi di Electa dell’autobiografia di Salvatore Ferragamo in traduzione italiana, ha subito compreso come una favola così straordinariamente ‘hollywoodiana’ potesse offrirgli spunti di meditazione su come, una volta ogni tanto, e forse un tempo come ormai non più ora, il destino e il genio possano essersi incontrati su un fertile sentiero in direzione di quella bellezza e di quell’eleganza che, oggi irrimediabilmente cancellate dalla volgarità e dalla prosaicità del mondo contemporaneo, hanno viaggiato di pari passo con quel Cinema testimone di un’epoca perduta di perfezione raggiunta, ostentata e imitata come modello da perseguire per almeno fingere, o sognare, di vivere in un mondo migliore. E più comodi. Sì, perché il ciabattino di Bonito, un piccolo paesino rurale in provincia di Avellino, che a 15 anni convinse la famiglia a lasciargli fare quel mestiere umilissimo realizzando in una sola notte e con le sue mani le scarpe in pelle bianca per la Prima Comunione della sorellina, e che di lì salpò per l’America, dove iniziò a lavorare sui set dei film di Cecil B. deMille e D. W. Griffith, per arrivare a far calzare i suoi capolavori a Mary Pickford, Lilian Gish, Douglas Fairbanks, Charlie Chaplin, Rodolfo Valentino, Joan Crawford, Pola Negri, Gene Tierney, Marilyn Monroe, Greta Garbo, Audrey Hepburn, Sophia Loren, Anna Magnani, fino alle più blasonate dame delle corti e dei palazzi del mondo intero, comprese Elisabetta d’Inghilterra ed Evita Perón, fu sempre animato da un solo, unico scopo: quello di esaltare al massimo le funzionalità anatomiche del piede e la sua capacità di sostegno dell’intera corporatura stante o in movimento, fornendogli involucri belli, sì, e fantasiosi come nessun altro, ma anche, e soprattutto, comodi, solidi e confortevoli.

La storia di Salvatore Ferragamo sembra una fiaba antica, che prende le mosse da uno scenario di modestia contadina per raggiungere via via, nell’epoca dei grandi flussi migratori verso gli Stati Uniti dell’inizio del secolo scorso, i più alti vertici di un successo imprenditoriale perseguito con serietà e immaginazione, mai fiaccato nemmeno dagli ostacoli dalle ingenti crisi economiche del 1929 e degli anni complicati del Secondo Conflitto Mondiale. Affondando le mani negli archivi della Fondazione e del Museo Ferragamo messi a disposizione dalla famiglia, Guadagnino sceglie di raccontare questa fiaba attraverso una documentazione fotografica da capogiro, evidenziando ogni suggestione artistica scatenata da un’urgenza di modernismo che sorprende in un artigiano di origine contadina del Meridione italiano baciato invece da un acume creativo ritto come un’antenna, nell’Italia del Ventennio fascista – dove era rientrato dopo il successo americano per fondare nella patria d’origine la ditta di famiglia in quella Firenze che lo sedusse con l’esemplare bellezza delle sue architetture medioevali – per captare ogni nuova tendenza del Gusto e del Design. Il ritmo del racconto sostiene adeguatamente l’incantamento da fiaba d’altri tempi con l’alternanza di musiche sontuosamente classiche (Venus dalla suite The Planets di Gustav Holst) con le calde voci bianche e nere dello Swing statunitense, senza che mai si avverta l’invadenza di una velleità ‘autoriale’. Consapevole della qualità dei materiali a disposizione, compresa un’intervista radiofonica concessa da Ferragamo alla Radio Australiana, dove andò a promuovere l’autobiografia uscita due anni prima della sua morte, avvenuta nel 1960, Guadagnino affida allo squisito parterre dei suoi ospiti (da Martin Scorsese a Manolo Blahnik, alla costumista Deborah Nadoolman Landis, compresi gli eredi Ferragamo e numerosi tra stilisti, giornalisti, critici ed esperti di moda e di cinema) e alla voce fuori campo di Michael Stuhlbarg, il papà di Elio in Chiamami col tuo nome, il piacere di lasciarsi concertare come le molte voci di un coro impegnato nell’intonare un gioioso e squillante Anthem alla bellezza, all’eleganza e alla genialità di un recente, ma perduto per sempre, Mondo di Ieri.


CAST & CREDITS

(Salvatore-Shoemaker of dreams); Regia: Luca Guadagnino; sceneggiatura: Dana Thomas; fotografia: Clarissa Cappellani, Massimiliano Kuveiller; montaggio: Walter Fasano; interpreti: Michael Stuhlbarg (voce fuori campo); produzione: Francesco Melzi d’Eril e Gabriele Moratti, MeMo Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia, 2020; durata: 120’


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