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Solitudo

Pubblicato il 4 maggio 2009 da Fabiana Proietti


Solitudo

Parlando di cinema indipendente si cade spesso in un equivoco, una fuorviante equivalenza tra indipendente e minimalista, quasi che le pellicole (o i video) non appartenenti al cinema mainstream debbano tutte avere una forte componente ombelicale, essere storie piccine di persone piccine, votate al particolare senza poter mai pretendere l’universale. Un malinteso spesso rafforzato dalle manifestazioni che rappresentano il cinema indie e finiscono col fare scuola, ingabbiando in uno stile predefinito gli autori che vi si votano.
C’è da dire che Solitudo, primo lungometraggio in digitale prodotto dalla Outsiders Movie, evita certi stereotipi, certe angustie dei nostri tempi, i plot del call center e della precarietà che sembrano ormai tappa insostituibile per giovani autori da mettere alla prova, o per sfornare l’ennesima commedia sulla situazione lavorativa giovanile finendo per riderci su (peccato che non ci sia assolutamente nulla da ridere e forse il cinema italiano dovrebbe (re)imparare dai cugini transalpini a fare un cinema serio sul tema del lavoro). Se gli autori esordienti scelgono storie marginali, un po’ per moda un po’ per timore di eccessiva ambizione, Pino Borselli, affermato fumettista già autore di alcuni cortometraggi vincitori di festival, realizza invece un’opera ambiziosa, eccessiva, che seppur imperfetta, conferisce di nuovo all’aggettivo indipendente il senso che gli spetta, quello di un cinema che non sia soggetto alle strategie del mercato e porti avanti il suo discorso autoriale, senza rendere conto a nessuno.

Solitudo punta in alto, mira all’assoluto come rivela l’immagine del cosmo nell’incipit e si pone come racconto mitico – e del mito hanno la qualità i due protagonisti, Grandecapo e Littlebaby – sulla stessa attitudine umana all’affabulazione, all’arte del racconto, la sola che, in forme sempre mutevoli, si perpetua insieme all’uomo. Il film è un racconto nel racconto, ogni personaggio è narratore e spettatore (o “ascoltatore”) al tempo stesso, i punti di vista si sommano, si scontrano – i quattro amici giocatori di poker non fanno che interrompersi e sormontarsi a vicenda – e il racconto prende vita nonostante tutto, nutrendosi proprio di quelle interruzioni, degli interventi che si sovrappongono, strato su strato, alla sua ossatura.
E il Pigneto – quartiere romano che è simbolo di un cinema vivo e popolare – da sfondo offuscato acquista pian piano rilievo fino a conquistarsi il ruolo di proscenio, di teatro dove si avvicendano i personaggi più vari che interrompono la storia principale per lasciar irrompere nel film altri spaccati di vita, altri squarci di esistenze. Il personaggio di Ciro Damiano è forse la più vivida di queste maschere: il suo Pulcinella che dall’apologo morale trascolora nella più prosaica quotidianità è una figura tragicamente malinconica, che lascia spegnere il sorriso sulle labbra. È forse uno degli episodi più emozionanti di Solitudo, quello in cui maggiormente l’opera lascia intravedere la sua ragion d’essere e la sua vitalità, sfuggendo ai meccanismi narrativi che in altri momenti scimmiottano un certo cinema di genere americano, o a scelte visive troppo debitrici dell’estetica pubblicitaria.

È un problema che investe soprattutto la prima parte del film e che in alcuni casi finisce per mangiarsi le buone intenzioni e le intuizioni brillanti. Se infatti è interessante quell’esplosione di immagini che si susseguono a un ritmo vorticoso come il caos della vita cui proprio l’arte del racconto trova modo di dare forma e valore, meno efficace è lo stile scelto per dar corpo all’idea. Il montaggio frenetico, le musiche roboanti, la fotografia in bianco nero così à la page, finisce per rendere la sequenza un videoclip in netto contrasto con la critica di questo mondo globalizzato e malato che viene portata avanti nel film.
In questo modo Solitudo presta il fianco a un’altra annotazione: così come il racconto è sempre spurio, fatto di un sovrapporsi di strati portati da ogni lettore e uditore, così il cinema – racconto per immagini – è sempre figlio di altre visioni, di altri stimoli. Nel film di Borselli riusciti sono i richiami – inevitabili – al fumetto, nel look dei protagonisti, un uomo e una donna del post apocalisse, mentre appaiono meno consapevoli (o non sfruttate in modo adeguato) le infiltrazioni maligne delle pubblicità che ci riempiono gli occhi nostro malgrado.
C’è senz’altro da lavorare, da levigare, una retorica da rendere più asciutta e sottile, ma c’è anche del buono nell’impegno con cui Borselli, scrivendo, dirigendo, realizzando i disegni, prestando il suo corpo e persino la sua voce – canta le canzoni dei Tamtamsonik – forgia la sua creatura.


(Solitudo); Regia e sceneggiatura: Pino Borselli; fotografia: Daniele Poli; montaggio: Gianluca Quarto; musica: Tamtamsonik, Ingo Schwartz; interpreti: Pino Borselli (Grandecapo), Linda Manganelli (Littlebaby), Ciro Damiano (Pulcinella), Sebastiano Tringali (Clochard) Raffaele Castria (Narratore); produzione: Outsiders Movie; origine: Italia 2007; durata: 80’; web info: sito Outsiders Movie


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