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Spike Lee e i 70’s: NY Graffiti

Pubblicato il 18 aprile 2006 da Alessia Spagnoli


Spike Lee e i 70's: NY Graffiti

“Molti di noi hanno realizzato film sulla vita di strada. Spike ha dato una svolta a questo genere”.
Così si esprimeva Sidney Lumet ancor prima dell’uscita di Inside Man, l’ultima sfida vinta, in ordine di tempo, da parte del ben più che promettente discepolo (e la cui visione, c’è da scommetterci, non potrà che confermarlo in questa convinzione).
Quest’ufficiale dichiarazione di stima è contenuta nei ricchi extra del dvd de La 25a Ora, in cui è un altro grandissimo autore del cinema di strada Anni ’70 - non a caso - a tessere le lodi dell’ormai affermato regista afro-americano e a investirlo del titolo di cantore dell’America contemporanea. Senza contraddizione alcuna col fatto che ogni storia fin qui raccontata dal regista nato ad Atlanta, ma newyorkese d’adozione, viene illuminata e continuamente ricontestualizzata dal legame viscerale e sempre evocato con i Seventie’s. Non solo nei film esplicitamente ambientati in quel decennio di svolta, così fecondo per il cinema USA (Crooklyn, Summer of Sam), ma anche in tutte quelle altre opere in cui è piuttosto attraverso le musiche, la battuta di un personaggio figliato dall’epoca o un ritaglio di giornale, che si manifesta palpabile quella particolare atmosfera. _ Lee riattualizza dunque quel modello di cinema di denuncia sociale rimanendo sempre in prima linea come i suoi “cattivi” maestri, ma restando saldamente ancorato anche alla bruciante attualità. Ciò avviene qua e là nelle pieghe del racconto di quest’ultimo film prodotto dalle major, solo a prima vista un mero esercizio di stile (la riproposizione e insieme la rielaborazione del film di rapina: quasi un genere a sé stante nel panorama cinematografico a stelle e strisce di trent’anni fa).
L’appartenenza etnica dei suoi personaggi urlata nei suoi primi film e che secondo alcuni esegeti superficiali permane tutt’oggi come il dato più macroscopicamente evidente del suo fare cinema, segue in realtà solo in seconda istanza il loro essere newyorkers: ciò che rappresenta per loro un’autentica prima pelle. E’ solo in quanto abitanti della città che non dorme mai e delle contraddizioni estreme che essa esprime (esplicitate attraverso constatazioni di nuovo epidermiche, tattili, con tutta quella costante attenzione rivolta ai dati meterologici) a fornire gli autentici moventi alle loro azioni.
Assumendo come base di partenza i ghetti e i quartieri-prigione della metropoli-gabbia, in cui sono gli stessi grattacieli a sbarrare la strada ai sogni di fuga dei vari personaggi (del resto New York fu identificata, non a caso, da John Carpenter come carcere di massima sicurezza dell’intero territorio statunitense nel suo 1997 - Fuga da New York), Lee intreccia vicende che, quando entrano in contatto, si riplasmano continuamente caratterizzando il fluire continuo, ininterrotto del suo lunghissimo racconto filmico: come se da vent’anni a questa parte andasse componendo un unico gigantesco murales della città, raccogliendo un testimone ideale da tutta una generazione di grandi filmakers newyorkesi come Allen, Coppola, ma soprattutto Scorsese: proprio alla lezione del grande cineasta italo-americano (come lui inizialmente riconosciuto come portavoce e megafono di un’intera comunità fino ad allora invisibile per il grande schermo), sembra paragonabile proficuamente l’opera complessiva del "nostro". Ma egli padroneggia egregiamente anche i meccanismi del film corale cari ad Altman, un altro gigante del cinema USA targato ’70. E qui viene fatto di pensare a come tutti questi autori abbiano dovuto pagare uno scotto iniziale al loro non essere allineati, salvo poi essere fatti oggetto di tardivi ripensamenti e riacquisizioni da parte di istituzioni come l’Academy e simili: Lumet e Altman sono stati gli ultimi due autori, in ordine di tempo, a venire omaggiati retroattivamente con l’attribuzione dell’Oscar alla carriera, mentre Scorsese e ora Spike Lee fanno altrettanta fatica a conquistare l’ambita statuetta.
E’ proprio l’autore di Taxi Driver a definire il più giovane collega “una voce unica, una voce necessaria al cinema americano”. Ed è sempre lui ad aver fatto da “padrino” al giovane Spike, nel momento in cui questi si emancipava per la prima volta dal reticolato tematico e produttivo cui sembrava essersi auto-vincolato fin dagli esordi, finanziando Clockers (cheavrebbe dovuto dirigere egli stesso). Un bell’attestato di stima, non c’è che dire: ripagato con gli interessi, però. In quelle che a tutt’oggi appaiono come le opere più mature e riuscite di Spike, Summer of Sam e La 25a Ora, il suo cinema e quello di Scorsese praticamente si toccano. Se la prima pellicola rimanda alla violenta amicizia tra ragazzi nati e cresciuti nello stesso quartiere (come avveniva già nel capolavoro Mean Streets), la seconda rievoca il protagonista loser di Taxi Driver, che incarnava i medesimi cambiamenti umorali della città: all’indomani dell’11 Settembre, come dopo il rientro dal Vietnam, con la sua visione fortemente soggettivizzata della metropoli notturna e infernale. Monty in attesa della sua ultima ora condivide lo stesso destino di New York: come la capitale mondiale degli affari agisce unicamente per il proprio tornaconto personale, senza pensare agli altri o provare il benché minimo rimorso per le sue azioni riprovevoli: l’unico sentimento che l’improvviso castigo abbattutosi su di lui gli provoca è sgomento.
C’è da dire infine che la collaborazione di Spike Lee con Denzel Washington sembra ricalcare la feconda partnership tra Scorsese e De Niro, lanciato come divo a tutto tondo solo dopo essere stato reinventato ogni volta dal regista-mentore. In Inside Man Lee lavora proficuamente con due attori scorsesiani d.o.c. come Jodie Foster e Willem Dafoe, ma già in precedenza aveva spesso utilizzato John Turturro, lanciato proprio da Il Colore dei Soldi di Scorsese. _ Come Woody Allen, è autore di incredibile prolificità, eppure di straordinaria ricchezza semantica (laddove la stella dell’autore di Manhattan pare un po’ appannarsi, nonostante i fasti recenti del sopravvalutato Match Point).
Come Marty, Spike è invece cineasta munifico dallo stile vigoroso, che intesse le sue tele di un caleidoscopio di colori e suoni in una trama fitta di rimandi e corrispondenze cinefile, ma sempre filtrate da uno stile assai personale e coinvolgente.
Tra i suoi contemporanei non ci sono molte pietre di paragone per Spike Lee e il raffronto coi grandi maestri del passato può solo attestarne l’ormai avvenuta acquisizione tra i grandissimi, come una delle personalità di maggior spicco del cinema americano contemporaneo.


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