Squarci di luce sull’orrore: Lo sguardo nel cuore straziato dell’Olocausto

Due ore dilatate nel flusso dei pensieri e delle emozioni, la durata di tutta un’esistenza individuale e collettiva. La scelta di una presa di posizione, di uno sguardo preciso per rivelare alla propria coscienza il lento, inesorabile, sadico sgretolamento non solo del proprio prezioso microcosmo ma anche di tutto di ciò che intorno ad esso è tangibile, concreto, il peso delle cose e dei corpi. Un peso dal quale si vorrebbe sfuggire ma che, con ottusa e cieca potenza, sfonda tutti i muri, non lascia scampo, rende topi braccati che preferiscono rodere un buco dentro una parete e vedere attraverso di esso, senza accorgersi che tutto intorno alla parete è crollato e che una scheggia che penetra attraverso quel buco può causare più dolori, perché procura una pericolosa inattitudine alla visione dell’immensità dell’orrore. Che si presenta in una spettrale mattina post-bombardamento sotto le vesti di una città che una volta aveva un nome una storia, e che ora è un cumulo di macerie anonime, il cui unico calore sprigionato è quello dei bombardamenti fumanti, che si è sovrapposto al calore degli uomini e delle donne, saturando l’aria a tal punto da assediare l’unico sopravvissuto, l’unica indomita traccia di sangue e carne sporca, affannata, sudata quasi una macchia sul cemento sfregiato. è molto arduo cercare di riordinare attraverso la razionalità della parola e del pensiero una sensazione che investe e scuote dall’intorpidimento il senso della vista, quelle immagini più grandi della vita e della tragedia che al tempo rendono necessario una canale di sfogo per condividere questa continua rivelazione degli occhi che soltanto chi, come Roman Polanski, sa guardare e guardarsi dentro riesce a trasmettere in maniera tanto contagiosa. In molti potevano raccontare la storia del pianista ebreo-polacco Wladyslaw Szplman, e non conta neanche tanto il fatto che Polanski sia ebreo-polacco, quanto un altro fattore determinante, la capacità di trasformare la sua particolare sensibilità di ebreo-polacco in una sorta di sesto senso, di sensibilità altra, di tradurre nel linguaggio incorporeo delle immagini, la sensorialità di luci, suoni, colori, volti e fare anche qualcosa di più, sfondare la parete dello schermo, per far piombare tutta la brutale verità anche sonora della barbarie sugli spettatori, i cui occhi sono chiamati ad essere testimoni, coscienze che registrano. Le schegge che esplodono nella visione totale e definitiva polanskiana, rievocano alla memoria resuscitata degli occhi altre immagini fattesi suono e corpo dell’olocausto che per la forza della narrazione e dello stile hanno creato un simile desiderio di comunione delle coscienze. Ma se Wladyslaw Szpilman è posto davanti alla parete di un edificio diroccato attraverso un buco in un muro, l’Oskar Schindler di Spielberg si trova di fronte alla stessa parete di un altro edificio, più imponente e solido, ma altrettanto franabile, quello del denaro e del potere economico. Cambia la prospettiva,cambia lo sguardo e all’assoluta mancanza di ipocrisia e quasi imbarazzante sincerità polanskiana che permette di vedere con sempre più limpida chiarezza la pur livida struttura allegorica e simbolica dell’immagine, si sovrappone la sconcertante ambiguità ideologica e morale dello sguardo spielberghiano, dove il filo rosso che lega il denaro, le regalie per i nazisti, gli oggetti di rame della fabbrica è dello stesso colore del cappotto di quella bambina in fuga tra le devastazioni del ghetto, in uno stridente contrasto tra bianco e nero e colore, rievocazione storica e coscienza personale. Il colore è invece completamente presente nell’odissea di Sziplman in tutte le sue tragiche, opache, solari, struggenti varietà, ne scandisce le azioni, i pensieri, le stagioni, è ostile ma anche ristoratore, illumina quel fisico e quel volto che chiede di sopravvivere individuo tra gli individui, macchia rossa tra le macchie rosse. Gli occhi di Spielberg devono inseguire la tragedia nella corsa disperata di una bambina e poi nel suo corpo martoriato, Polanski non ne ha bisogno:i suoi occhi sono sempre stati lì, in mezzo a una folla di disperati e sperduti.
