Star wars: Odissea negli spazi

La nuova trilogia di Star wars segna un passo utopico nell’impiego del digitale come strumento per la concretizzazione in immagini sensibili di spazi e luoghi che, fino a poco tempo fa, potevano essere concepiti solo dalla fantasia o restituiti mediante l’impiego delle arcane magie della sola pagina scritta. Un modo assai vicino, per propensione al realismo fantastico, all’uso che del digitale fa anche Peter Jackson all’interno della trilogia di Il Signore degli anelli, ma distante anni luce da quest’ultimo modello per il disperato bisogno di reinventare e ripensare l’immagine cinematografica.
L’immagine, lo spazio, le prospettive illusorie sono, in effetti, costantemente piegate, forzate e perennemente trasformate. Perdono (o sembrano perdere) la loro mera funzione di giochi di luce da proiettare su uno schermo, per divenire plastiche, materiche, infinitamente modellabili. Si coglie, tra le pieghe del flusso di scene e situazioni presentate nella pellicola, il lavorio del pittore prima ancora che del fotografo e si ha sempre l’impressione, assistendo alla proiezione del film, di poter sentire, quasi, l’odore delle tempere e degli oli impiegati e che basti allungare la mano per potersi sporcare la punta delle dita con la sostanza dei sogni.
Quanto resta, allora, di fenomenologico, nella ripresa lucasiana? Fino a che punto quello che stiamo vedendo è solo frutto della fantasia? Dove finisce la carica documentaria di un’immagine che resta comunque ripresa fotografica della realtà e dove comincia il lavoro paziente del poeta che quella realtà piega a significare altro? Difficile dare una risposta esaustiva a queste domande perché la messa in scena lucasiana, più ancora di quella del buon hobbit Peter Jackson che ancora fa appello alla potenza di veri sfondi naturali e di spazi concreti entro cui ospitare il proprio racconto, tende davvero verso un’utopica fusione degli opposti, verso un luogo cinema in cui lo spazio, continuamente rimodellato e deformato, tende contemporaneamente verso tutto e verso nulla.
Già il rapporto tra set e film finito comincia ad assumere, in sede di ripresa e post produzione, dei connotati ambigui, ai limiti dell’assurdo. Nella vecchia trilogia, infatti, esisteva ancora un rapporto diretto tra location e immagine finale, la Tatoine di Episodio IV o la luna boscosa di Episodio VI erano luoghi reali, spazi entro cui gli attori avevano modo di muoversi liberamente. Possedevano, insomma, anche quando erano puri e semplici ambienti costruiti in teatro di posa, una realtà fenomenologica chiara ed incontrovertibile. Nella nuova trilogia quasi nessuno spazio esiste al di fuori del film così come viene concepito dal regista, ma ogni luogo è invenzione dell’autore, deformazione di una realtà fotografica che viene letteralmente obbligata e ripercorrere le tappe di un immaginario fantascientifico molto anni ’60, di quello che ammiccava dalle copertine di riviste storiche della fantascienza americana alla Buck Rogers. Eppure, per quanto magniloquente sia il pennello del regista, il bisogno di ricorrere ad ambienti reali che facciano da modello alle tele della saga resta sempre molto forte se il regista ha sentito il bisogno di ricorrere alle eruzioni dell’Etna, agli incanti del lago di Como oppure ai prati ridenti della Scozia per dare corpo e respiro ai suoi diversissimi pianeti. Scene diverse finiscono, quindi, per avere tutte una stessa location (il blue o il green screen) mentre stesse scene finiscono per avere locations diverse (il teatro di posa, gli ambienti ripresi dal vero e, infine, la memoria capiente di un computer). Ne viene fuori una concezione degli spazi particolarissima, ai limiti della schizofrenia che va dai limiti angusti dell’abitacolo di un caccia stellare alle possenti scene d’insieme sullo sfondo di incredibili metropoli del futuro. Ma ne viene fuori prima di tutto uno spazio perennemente controllabile teso alla restituzione di idee oltre che di geometrie. Si pensi, tanto per citare un esempio palese, alla costruzione delle notevoli architetture di Coruscant, capitale dell’impero e sede del senato, per rendersene conto. E si guardi soprattutto alla definizione babelica delle guglie altissime, alla possente propensione verso l’alto dell’intero organismo architettonico tutto teso alla restituzione di un’immagine di una civiltà altissima, ma caotica (si pensi all’uterina camera del senato, a forma di alveare disordinato) in una verticalità presto contraddetta dal continuo flusso degli aereoveivoli che disegnano, quasi delle tratteggiate linee orizzontali a tagliare il quadro rendendolo instabile. Qui il digitale, teso soprattutto a sconfiggere la forza di gravità che dovrebbe legare le macchine al suolo, dona al mondo messo in scena un sapore provvisorio simile a quello già sperimentato nella città delle nuvole di Episodio V (estrema vestigia di un passato glorioso della galassia). La Repubblica è, fin dalla sua messa in immagine, già destinata alla caduta, il sistema disegnato da Lucas sembra essere già consapevole della sua imminente fine al punto che assume valore catartico, ma polemico, la scelta di Lucas di girare la sfida tra Yoda e Palpatine proprio nella sala del senato, dove gli scranni volanti dei senatori, simbolo della vecchia democrazia, divengono vere e proprie armi nelle mani del nuovo imperatore.
Ed è in questi snodi che le ragioni del pittore sposano quelle del narratore in una propensione affabulatoria che, nel bene come nel male, non ci pare abbia molti altri esponenti nel cinema di oggi.
[maggio 2005]
