Suicide Squad - Perché sì
Parlare di un cinecomic oggi è diventato, per la critica, ma anche per il semplice cinefilo appassionato, estremamente difficile.
Su nessun altro genere cinematografico, infatti, si registra tanta agguerrita tifoseria. Da nessun’altra parte si assiste a una guerra di opinioni così capace di andare a colpire basso, alla pancia e, se possibile, sotto la cintola, dove fa più male, dove è più facile lo scandalo che garantisce maggiori possibilità di ottenere like sui social network (o dislike, che in fondo è lo stesso) e agganci ai motori di ricerca.
Il cinecomic non è più (se mai lo è stato) spazio per una riflessione anche teorica sulle nuove strade che il cinema sta intraprendendo in questo periodo dominato dalle guerre terroristiche. E la critica, da qualche anno derubricata al livello di opinione anche meno influente di quella che si esprime al bar sotto casa, ha abdicato alla sua funzione e si è ridotta al ruolo, più o meno consapevole, di recensione scritta con la mano sinistra, con qualche vezzo da tifoso, qualche gridolino ammiccante, una buona dose di presupponenza, poche parole (per carità!) e quante più immagini possibili.
Così ogni nuovo titolo è messo in pasto al sistema delle condivisioni senza filtri, senza ricerca di distanza, senza riflessione, fedeli alla massima che per un cinema scritto molto di pancia occorre, in fondo, un pezzo altrettanto di pancia.
Suicide Squad è stato accolto, soprattutto in America, da un coro di stroncature senza appello. Qui in Italia, dove in genere le posizione sono più sfumate e dove il cinecomic è un genere non autoctono, ma di importazione, le posizioni sono meno nette, ma comunque tendenti al grigio scuro.
Eppure Suicide Squad, che di suo è un film pieno di difetti e spesso pesantemente irrisolto, non merita, a parere di chi scrive, un trattamento improntato a tanta sufficienza.
Di film altrettanto irrisolti, in fondo, è pieno il genere. E sono tanti anche quelli semplicemente più brutti. E rispetto a tanti prodotti nati per puro spirito di merchandising, è anche un film che arpeggia stranamente su corde più sincere. Sfugge, quindi, il motivo di tanta acrimonia.
Proviamo, allora, a tagliuzzarlo con il bisturi di una critica che di suo non deve dire tanto se un film è bello o è brutto né se è piaciuto o meno a chi scrive, quanto capirne il funzionamento cercando di restituire al lettore il suo senso e il suo valore.
Tanto per cominciare Suicide squad nasce spurio. Mette in campo l’idea di una squadra di supercattivi da impiegare per affrontare eventuali minacce esterne particolarmente portentose. Secondo una dinamica alla Sette samurai (o alla Magnifici sette, se preferite muovervi su un versante puramente americano), la combriccola di improvvisati eroi è un gruppo eterogeneo costretto a collaborare per una mission verso la quale non nutrono particolare interesse. Per loro viene a mancare uno statuto fondamentale del percorso eroico: l’investitura di una responsabilità. Tutti i personaggi agiscono non per salvare un’umanità che li rifiuta, ma paradossalmente per salvare solo quel briciolo di umanità che, forse, è rimasto in loro (un rapporto padre-figlia o un amore folle fondato sui paradossi). In questa chiusura a riccio delle motivazioni dei personaggi in una sfera egoica ed egoistica risulta forse il principale motivo di interesse di un’operazione per il resto piuttosto affannata. Quelli che abbiamo di fronte non sono personaggi che cambiano posizione attanziale o che subiscono una conversione sulla via di Damasco al principio di un poco chiaro bene assoluto. Gretti prima della missione, restano tali alla fine della stessa senza che altra motivazione al semplice sopravvivere li abbia minimamente sfiorati. Così privati di un principio e di un fine a cui tendere che sia altro dal loro provvisorio stare insieme, i personaggi girano a vuoto.
Disorientati nella logica di un percorso eroico (postulato base del genere) disorientano.
A fronte di un percorso eroico così incapace a inerpicarsi verso vette ideali corrisponde una mission che paradossalmente si morde la coda: il villain non solo è uno del gruppo di improvvisati (anti)eroi, ma è anche il risultato dell’azione stessa del loro stare insieme. Il cattivo non è un principio altro, ma la perversione di un principio interno. Nato per prevenire, esso diventa causa di sciagura, come una cura che fa più danni della malattia stessa. E ogni riferimento alla politica estera statunitense che finisce spesso per produrre i suoi stessi nemici non sembra affatto casuale.
Messi a tacere gli eroi più o meno puri (che aprono e chiudono al pellicola come comparse di lusso), i cattivi si spargono sulla superficie della narrazione infettandola di una visione pop la cui ambiguità sta proprio nella posizione che occupano. Non abbastanza mostri, ma neanche sufficientemente capaci di superare i limiti della loro mancanza motivazionale (i due discorsi prima dell’azione sono irrisi e presi in giro anche nella loro precisa retorica negativa), i personaggi assolvono la funzione di un’immedesimazione spettatoriale votata alla privazione di ogni catarsi. Troppo simili a noi sin dall’inizio, neanche alla fine ci indicano una direzione possibile che si riveli capace di superare il privato.
Un percorso simile a quello, in fondo, sperimentato in Fury, seppur con maggiore efficacia drammaturgica.
Peccato che molto di questa sostanziale innovazione di genere sia più nella sfera delle intenzioni che in quella dei risultati. Conseguenza forse delle pressioni di orde accanite di fans che impongono ormai l’agenda del regista più di quanto non facciano le stesse case di produzione.
Peccato perché Suicide squad ci prova, se non altro, a battere qualche strada diversa (a fronte di continue impressione di deja-vu soprattutto a livello di immagini e nel finale assai pasticciato).
Il risultato è, quindi, un film che perde colpi per via di una sceneggiatura patchwork che si sovrappone a questa ennesima, al fondo carpenteriana, storia di guerra che sporca prima di tutto gli occhi di chi guarda. Irrisolto e confuso, certo, ma proprio per questo, forse, più interessante che semplicemente brutto.
(Suicide squad); Regia: David Ayer; sceneggiatura: David Ayer, John Ostrander (fumetto); fotografia: Roman Vasyanov; montaggio: John Gilroy; musica: Steven Price; interpreti: Will Smith, Jared Leto, Margot Robbie, Joel Kinnaman, Viola Davis, Jai Courtney, Jay Hernandez, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Karen Fukuhara, Ike Barinholtz, Scott Eastwood, Cara Delevingne; produzione: Atlas Entertainment, DC Entertainment, RatPac-Dune Entertainment; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: U.S.A., 2016; durata: 130’