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Sul confine

Pubblicato il 29 marzo 2010 da Alessandro Izzi


Sul confine

Teatro Bertolt Brecht, Formia. Se l’oscurità fosse un verbo da coniugare, non si accontenterebbe dei tempi e dei modi che insegnano a scuola. Cercherebbe, piuttosto, possibilità altre che sfuggono al presente sfidando l’infinito.
Il buio non lo declini in modo piano come puoi fare, ad esempio, con la voce del verbo scrivere, perché in esso si confondono i confini tra soggetti e complementi oggetti e non sai mai, fino in fondo, dove finisca l’io e cominci il tu. Allo stesso modo non puoi sperare che esso sia un verbo transitivo perché dal buio puoi andare solo verso altro buio e quindi non ti muovi, perso come sei in una pece che ti si attacca addosso come l’acqua del mare a mezzanotte quando non c’è luna. L’oscurità non tende verso nulla, solo pensa a perpetuarsi nella stasi. Confina col silenzio, suo fratello gemello, e sfida le nostre coscienze con una domanda insondabile, a suo modo indefinibile.
Non ha un passato, non cerca un futuro. Semmai ti si rivolge con un imperativo che ti impone la sua presenza. Se hai una luce puoi, forse, arginarlo, sagomarlo all’interno con dei limiti esperibili, ma non gli dai un confine, solo lo interrompi mettendoci un’oasi dentro. Dove c’è luce riporti il tempo e definisci una durata, fuori resta l’eterno che confina col religioso, col mistico, con l’imponderabile.
Nei balzelli di luce ci puoi mettere il passato, il presente, il futuro. Ti basta sagomare appena la luce dei tuoi riflettori che, ecco, puoi sbizzarrirti col condizionale e con il congiuntivo. Qui i soggetti respirano di vita propria e si raccontano in un flusso che dura quanto la vita di quel fascio di luce che li illumina. Qui ci puoi parlare di politica e ricordarti delle missioni di pace combattute con l’uranio impoverito, dei soldati che scoprivano con orrore di come l’altro non è come te lo disegnano in TV e della nostra cattiva coscienza che queste cose non vuol sentirsele dire in nessun modo. Qui puoi raccontare di singole esistenze e di piccoli episodi come quello del bambino appassionato di armi che cerca di uccidere un cagnolino fastidioso e neanche ci riesce per davvero.
In questi rettangoli di luce si affacciano ricordi che, quando li rifletti in uno specchio, possono anche darti l’illusione di un futuro. E in questi spazi ci fai un discorso di individui, di persone con un passato, un presente e, forse, un dopo. Ci racconti la storia di tre soldati che si vivono la guerra e ripensano alla casa lontana. Tre individui come potresti incontrarteli sotto casa, uscendo per andare a comprarti le sigarette: un po’ spacconi, un po’ teneri come sanno essere i ventenni che già devono sporcarsi le mani col lavoro e con un possibile, futuro matrimonio. Le mani nelle tasche, come a dirti che non possono farci niente se ormai esistono, si barcamenano tra lavori e videogiochi dentro ai bar. Figli di un paese che riconosci come Italia, ma che potrebbe essere un dovunque qualsiasi che neanche gli ha dato un ideale per cui valga la pena esserci. Hanno messo la divisa per vedersi alzato uno stipendio sempre in forse e se ne stanno in guerra chiedendosi perché e se finirà.
Se ne stanno sul confine del buio e quasi non si accorgono del passaggio dal presente all’infinito, di quel piccolo miracolo di senso che li stacca dal contingente e li fa, da persone quali erano, emblemi del Soldato.
Sul confine parla di guerra e del presente, ma lo fa come lo faceva Ungaretti che sfondava il verso per parlarci del senso della vita tutta.
Il buio irrompe troppe volte nel tessuto di queste tenere esistenze e ci scava dentro vertigini di senso. E anche la politica e il gesto del teatro civile che miscela spettacolo ed impegno si consuma dentro un’oscurità che non è mai vuoto e dietro ad un silenzio che non è mai assenza di suono.
Verrebbe facile dire che Sul confine ha una speciale drammaturgia di luci (sono almeno una trentina le combinazioni di piazzati e spot cui si aggiungono le luci delle torce che i soldati si son portati sulla scena – qui a Formia ne abbiamo vista una versione semplificata per adeguarsi al palco) come verrebbe facile dire che il gioco degli attori (su un testo splendido) è proverbiale per affiatamento ed una fisicità mai fine a se stessa e sempre al servizio dell’idea.
Ma questo è quel che viene fuori dal verbo scrivere quando il critico lavora in una pozza di luce in una stanza che è già lontana dal teatro.
Forse, invece, Sul confine è una drammaturgia del buio, un’esperienza dell’oltre che rimette tutto in una prospettiva da cui ogni cosa si fa piccola e distante.
E noi si sta davvero, per quasi un’ora, come d’autunno sugli alberi le foglie.


Drammaturgia: Gabriele Di Luca; Regia: Di Luca, Setti, Tedeschi; Interpreti: Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi con la collaborazione di Roberto Capaldo e Luisa Supino; Musiche Originali: Massimiliano Setti; Luci: Diego Sacchi; Produzione: Carrozzeria Orfeo / Centro RAT
-Teatro dell’Acquario (Stabile D’Innovazione della Calabria) in collaborazione con Questa Nave


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