Sun Don’t Shine
Presentato come un film a metà strada tra il Cassavetes di Shadows e La rabbia giovane di Terrence Malick, Sun Don’t Shine, opera prima dell’attrice Amy Seimetz, in realtà ha molto poco del primo e pochissimo del secondo. Troppo spesso ultimamente si paragonano film all’opera del regista di Ottawa solo perché alcuni frame, sequenze o scene ricordano il suo cinema che più di altri utilizza fotografia con luce naturale e voice over che sovrastano immagini mute. Ma Malick "utilizza" il mezzo cinema in una maniera, nel bene e nel male, che trascende la narrazione classica e si spinge verso interpretazioni filosofiche. Sun Don’t Shine invece è un noir con una narrazione piuttosto classica, forse dilatata oltre misura (l’ora e venti della sua durata viene percepita come il doppio dai suoi spettatori), e che nei rari sprazzi in cui tenta soluzioni leggermente più contorte diventa presuntuoso, disonesto e di conseguenza noioso.
Un road movie indipendente nei fatti ma poco nell’anima di cui non si sentiva proprio alcun bisogno. Gli attori, seppur bravi, vengono imbavagliati da una sceneggiatura piuttosto povera ed inconsistente dove gli snodi principali vengono accennati in maniera goffa e priva di logica narrativa. Assistiamo così a poco più di un’ora in cui due giovani ragazzi cercano di sbarazzarsi del cadavere del marito della protagonista, dove tensione psicologica ed emotiva non riescono ad arrivare allo spettatore se non per deduzione logica (la partecipazione attiva dello spettatore non sempre è un bene e soprattutto non tutti sono in grado di utilizzarla nella maniera corretta). Non bastano primi piani, dialoghi sconclusionati e controluce suggestivi per paragonare questo "esperimento registico" senza anima né identità all’opera di due registi che hanno compiuto un percorso artistico durante tutta la loro carriera preciso e ben riconoscibile.
La Seimetz è indiscutibilmente un’ottima attrice e dimostra senza ombra di dubbio di essere un personaggio di spicco nel mondo del cinema indipendente americano, del quale ha sicuramente saputo fare propri gli stilemi sia da un punto di vista produttivo che esecutivo. Regista dotata sicuramente di intelligenza sopraffina, di cultura cinematografica e di un’ottima conoscenza del mezzo cinema, ma che non è stata in grado, almeno per questa volta, di tradurre tutto ciò in un qualcosa di concreto e ben preciso. L’idea è l’assenza più evidente di questo film. Idea intesa sia come motore narrativo cardine sia come necessità di raccontare un qualcosa che, almeno negli intenti iniziali, arrivi come imprescindibile; un’esigenza. Con delle premesse così fragili diventa difficile commentare un esordio tanto atteso, figuriamoci scomodare nomi del calibro di Malick e Cassavetes.
(id.) Regia e sceneggiatura: Amy Seimetz; fotografia: Jay Keitel; montaggio: Amy Seimetz e David Lowery; musica: Ben Lovett; interpreti: Kate Lyn Sheil, AJ Bowen, Kentucker Audley, Kit Gwin; produzione: Amy Seimetz e Kim Sherman; origine: USA 2012 ; durata: 82’.