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Teatro - Earwicker amnesia: hello Yahia!

Pubblicato il 21 ottobre 2010 da Emiliano Paladini


Teatro - Earwicker amnesia: hello Yahia!

Gira aria di pacato buonismo alla fine della rappresentazione. E ci prende in un abbraccio conciliatorio e soddisfatto delle arti e dei suoi significati nei confronti del mondo che molte volte le subisce, probabilmente comodo e distorto. La play dice la storia della caduta, di quella caduuttaa angelica e biblica, o mitologica se cerchiamo le latitudini più estreme, o joyceana per dirla con le ultime parole fiammanti. E in quest’ultimo caso la play dice la storia della caduta nel sonno, se di Joyce consideriamo l’ultimo libro e se gli undici attori partono da buoni 15 minuti passati a fissare gli spettatori, a muoversi lentamente all’indietro dalla platea a palcoscenico, e poi a sedersi, in scena, fissando ancora il pubblico prima di cadere, nel sonno, ognuno dalla propria sedia al proprio sogno e tutti dentro l’incubo del protagonista: «The fall (bababa, dal gharagh ta kammina, rronn konn bronn tonn e rron tu onn, thn, ntrovarrho una wnskaw, too hoo hoor, de nenth urnuk!)», Finnegans Wake, pag. 1 - tutto attaccato nell’originale “inglese” o post-futurista; quasi come in assonanza con la canzone Surfin’ Bird dei The Trashmen, 1963 (condensa musicale pre-disco di due brani dei Rivingtons).

Ora, il libro di Joyce, Finnegans Wake, sicuramente qualcosa di affascinante quasi solo da guardare, è in breve la versione paranormale della leggenda del gigante Finnegan (che del Golem ebraico è per certi versi l’equivalente bretone/irlandese), o di Humpty Dumpty (che del gigante Finnegan è l’equivalente all’interno di una vecchia filastrocca britannica); e ha come tema e sua struttura la ricorsività pre-cibernetica alla base di qualunque ciclo (biologico, sintetico e spirituale), della discesa in questo caso e del suo contrario, dell’uno e dello zero bianri, dello ying e dello yang, e di tutte le loro derivazioni frattali e omologhe, raccontate in termini identici nella struttura e nel contenuto valido anche in quello che potrebbe essere l’ultimo grande lavoro ispirato alla ricorsività joyceana: The Wall, Pink Floyd, 1979 - in programma per alcune date italiane nella versione di Roger Waters nell’aprile 2011.

Finnegans Wake è di fatto un dizionario apocalittico scritto alla fine del mondo. Joyce aveva in qualche modo intuito che il mondo era in discesa; e Finnegans Wake è la cronaca dell’umanità che lentamente scivolerà nella Seconda Guerra Mondiale, saltando senza gli sci ai piedi dal trampolino di lancio della crisi del ’29. Wallstrait oldparr (il mestiere di H. C. Earwicker, il protagonista del libro e del ruzzolone da ubriaco in apertura) ha un riferimento a Wall Street fin troppo chiaro. E il libro esce dieci anni dopo la crisi del ’29, poi che nel ’22 l’Ulisse si apriva con un invito a salire (il 2011 segnerà quindi i 70 anni dalla morte di Joyce. Il Bloomsday 2011 sarà quindi molto particolare: Dublino, 16-19 giugno 2011).

Come per Tim Finnegan nella irish folk-ballad del 1850, tutta la faccenda è molto bohémienne, grottesca e comica (pur considerando la precisa coscienza del precipizio sociale tutt’intorno): morte e resurrezione in un bicchiere di whiskey, in fondo al quale il genere umano chiude un percorso e ne apre un altro, molte volte già nato come un’ennesima volta, come un enne-esponenziale. E questo lo si può dire nonostante Joyce sia molto seriamente padre di un’idea multimediale delle arti (nel 1909, in anticipo sulle avanguardie artistiche continentali, aveva aperto un cinema a Dublino) e il padre del nuovo nazionalismo contemporaneo.

Ma arrivati ai giorni nostri probabilmente si è perso il conto della cifra esatta di tutte le volte che si è ricominciato da capo. Si è perso il conto di quanto faccia precisamente quel numero elevato (o esagerato) a sé stesso dal comune «bisogno di attenzione e d’amore, troppo se mi vuoi bene piangi per essere corrisposto» che conta tutti i capitoli nuovi nella vita di una persona - come nella mirabile descrizione che diede Fabrizio De Andrè parlando di abissi emotivi (tratto da Avalanche, è giusto, Leonard Cohen, 1971) e di narcisismo onirico.

E’ un numero inconoscibile quello che misura tutte le volte che si torna a capo come l’attore che in un moto catartico allunga lo sguardo a provare a vedere come viene visto e come ci si sente a essere visti - tornando a Yahia Yahïch - prima di salire sul palco, prima di entrare in scena, prima del brindisi che inaugura la recita della compagnia di Fadhel Jaïbi coi bicchieri levati al cielo, e che la recita chiude, anche qui in un discorso circolare tipicamente joyceano, dopo essersi seduti, dopo essere entrati nell’incubo e usciti, svegliati, brindando, ma senza i bicchieri in scena (che di molti incubi personali sono la causa, se la rivoluzione è la guerra e innanzitutto una trasformazione interiore).

Il racconto di Yahia Yahïch, allora, può essere felicemente descritto in termini joyceani ricorrendo al lunghissimo miraggio notturno e ricorsivo (perché dal sonno ci riporta alla veglia) di Mr. Earwicker. Lo possiamo descrivere in termini joyceani non solo per via del fatto che tutta la trama della messa in scena si svolge chiusa nei confini di un incubo che il protagonista vive al termine di una reale caduta, di un incidente quindi, occorsogli nel bel mezzo di una festa di compleanno. Ma pure (al di là dell’aspetto comico-fictionale di fondo) considerando la fragranza dello scivolone, annunciato da battiti ad altissimo volume prodotti in rapida sequenza dalla musica di scena che fa partire l’incubo del protagonista, trovatosi a seguito di determinate circostanze a vestire i panni doppi ora della vittima di un sistema malvagio, ora del carnefice imbrigliato e punito da un sistema che improvvisamente gli si ribella contro, liberandosi dal gioco di sottomissione al quale veniva costretto.

Altrettanto doppia e, implicitamente giudicata inabile, è la parte recitata dal sistema, dalla folla, dalla gente, da chi in scena con Yahia («poveretto»!) ci racconta gli episodi deliranti dello spettacolo; e quasi certamente nello stesso modo in cui alle scuole medie si usciva immancabilmente per parlare male dell’assente di turno, come in una grande, epica, informe tragicomica disavventura manga (una potrebbe essere Hello Spank!).

Che lo spettacolo voglia poi raccontare un paradigma, una situazione esemplare che chiunque può cucirsi addosso un po’ per caso, quasi parlando di una tipologia psicologica, di una patologia comune, possiamo dedurlo, senza forzare troppo la mano, dal fatto che non c’è una scenografia, non c’è un luogo, ma le azioni prendono vita in un non luogo, anzi. In un luogo psicologicamente di tutti, appartenente alla crescita di ciascun uomo e, molto probabilmente, di tutta l’umanità. Di un’umanità che si muove rappresentata con solo alcuni oggetti della scena di monocromatico nero (Kaîs Rostom), assolutamente elementari, entro i confini che, proseguendo col discorso joyceano, sono quelli di Howth Castle and Environs, Here Comes Everybody. Di un’umanità che va in scena con un esempio di quello che può accadere a chiunque, e che solo l’incuria può trasformare davvero nel vicolo cieco della ricorsività vichiana (dalla quale seguendo Joyce si uscirà con Beckett verso non è ancora ben’ chiaro dove e cosa), e nel vicolo cieco della ripetizione kierkegaardiana o della coazione a ripetere di chi, detta in questi termini si sa, non vuole crescere.

Dentro i loro vestiti di scena (Anissa Bediri), abbandonati dalle mura di una scena reale, bombardati da musiche (Gérarde Houbrette) a volte frastornanti e solo qualche volta di rincalzo e dolce sollievo, gli attori della compagnia di Fadhel Jaïbi (regista di un teatro in linea con la storia dello sperimentale europeo) ci lasciano con un tiepido sospiro, un sorriso di calma collettiva e uno sfogo sulle loro parole di fuoco (arabo e francese tradotto in sovratitolazione elettronica per una tarda colazione lessicale esotica non indigesta).

E probabilmente è vero, allora: noi tutti l’abbiamo scampata bella (o Tutti morimmo a stento, come in un bel disco del 1968). Ma anche così fosse, il Teatro non ce le dice queste cose, ognuno si fa la morale della favola che più gli pare e piace. Il Teatro ci racconta delle storie, una storia sola in questo caso. La storia di un uomo di cui tutti hanno visto l’incubo e la sua gigantografia collettiva distribuita a pezzi di copione di scena. E un brindisi al suo risveglio («isn’t this where/we came in?» - Outside The Wall / In the Flash?, Pink Floyd, 1979).

Yahia Yahïch / Amnesia (15-17 Ottobre 2010) è uno spettacolo di Jalila Baccar e Fadel Jaïbi già visto quest’ultimo al Piccolo nel 2004 con Junun, di Familia Productions (Tunisia). Coprodotto da Coproduction Bonlieu Scène Nazionale Annecy, Théâtre National de Bordeaux en Aquitaine, Théâtre de l’Union, Centre Dramatique National du Limousin, Théâtre de l’Agora Scène Nazionale. Lo spettacolo chiude la rassegna sul tema del teatro nordafricano, all’interno della X Edizione del Festival Della Nuova Drammaturgia Tramedautore (Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea, 21/26 Settembre, 15/17 Ottobre 2010), organizzata dal Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa nelle sue sedi del Teatro Grassi e Teatro Studio nell’ambito di MED Progetto per il Mediterraneo.


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