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Tele Remake - House of Cards

Pubblicato il 19 aprile 2013 da Giammario Di Risio


Tele Remake - House of Cards

C’è un momento, nella storia del cinema, in cui lo sguardo in macchina diventa elemento di significazione, capace di indirizzare la tensione narrativa e lo sviluppo del racconto in immagini. Parliamo del film A place in the Sun, del 1951, in cui una splendida Liz Taylor, mentre balla con il “bugiardo” Montgomery Clift, di colpo rivolge lo sguardo all’obiettivo dando inizio a quei meccanismi di identificazione tanto cari al cinematografo. Qui invece abbiamo Kevin Spacey, che già dopo un minuto dall’inizio del primo episodio ci guarda negli occhi e, immerso in una fotografia scura, confessa il suo concetto di pena mentre stritola un sofferente cagnolino in fuori campo.

Washington. Al cinico e influente deputato democratico del Congresso Frank Underwood non va giù che il nuovo Presidente degli Stati Uniti non abbia mantenuto la promessa di nominarlo Segretario di Stato. Ma nulla è perduto. Giorno dopo giorno la sua sete di potere inizia a muovere le pedine dello scacchiere, che hanno principalmente il volto e l’incedere in quadro della moglie Claire, ricca filantropa, della talentuosa e ambiziosa giornalista Zoe Barnes, del minaccioso assistente Doug Stamper e dell’insicuro, quanto alcolizzato, deputato Peter Russo. La politica a Washington, nelle stanze abbottonate del potere, presenta continuamente il fiume carsico della violenza, della menzogna e Underwood, in questo quadro preciso, ha lanciato la sua “dichiarazione di guerra”.

E le riflessioni, suggestioni sulla strategia di “guerra”, siamo soltanto noi spettatori a comprenderle fino in fondo, grazie al filo d’oro che il protagonista costruisce orizzontalmente mediante il linguaggio dello sguardo in macchina. Che ci sia una situazione di pericolo, un momento di riflusso, o un siparietto ironico non fa differenza: Underwood è li pronto ad aprire il suo cinico inconscio a noi anche quando, per esempio, si tratta di confessare un odio spropositato verso i bambini. Gli altri personaggi non godono della medesima potenzialità e, automaticamente, si ritrovano a essere, al finale, in balìa delle azioni dell’eroe.

La verticalità porta in dote varie tipologie di rapporto che Underwood lentamente stabilisce. Si va dall’unione castrata con Claire, donna affascinante, che gestisce il nucleo familiare come realmente è, di fatto una s.p.a. pronta a macinare soldi, a quella con la Barnes, con quest’ultima che diventa gola profonda in cambio di carriera e sesso, fino al dramma del povero Russo, vera vittima dei giochi malati, ma “necessari”, del protagonista.
La regia è di stampo classico, con gli spazi che continuamente, come per le tazze da tè di porcellana della Casa Bianca, o i cuscini giganti nell’enorme factory del giornale “Slugline”, diventano proiezione delle missioni dei vari personaggi. Grande importanza riveste la sceneggiatura di Beau Willimon, con le battute che riescono a creare un equilibrio perfetto tra cinismo e ironia, dosando nel migliore dei modi riflessioni sulle debolezze e virtù umane, sul senso dell’unione tra un uomo e una donna, sulla geometria del potere politico americano e sulla manipolazione della cultura convergente.

La serie televisiva House of Cards è il remake dell’omonima miniserie britannica, in quattro puntate, andata in onda sulla BBC nell’autunno del 1990 e ambientata dopo la fine dell’era thatcheriana, su uno script realizzato da Andrew Davies e tratto da un romanzo di Michael Dobbs (membro del Partito Conservatore) pubblicato l’anno precedente, primo episodio di una trilogia interamente adattata per il piccolo schermo dalla BBC tramite To Play the King e The Final Cut (1993 e 1995, rispettivamente).
La versione statunitense è stata trasmessa da Netflix, sciorinando il suo percorso esclusivamente in internet. Ora sta scaldando i motori per la seconda stagione e per vincere nuovamente la sfida lanciata in questo 2012/2013 alle televisioni via cavo. Di grande qualità è la regia, affidata per i primi due episodi al produttore David Fincher, che ha strutturato l’architrave visiva con movimenti di macchina lenti, fotografia scura e grande attenzione ai dettagli e ai volti dei personaggi.


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