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Tele Remake – The Prisoner

Pubblicato il 22 settembre 2010 da Marco Di Cesare


Tele Remake – The Prisoner

Il 1967 per gli Inglesi non fu solamente l’anno delle inusitate sperimentazioni dei Pink Floyd guidati dal genio di Syd Barrett (un attimo prima che la testa del loro leader prendesse definitivamente fuoco), né solo l’ultimo istante di Brian Jones come grande anima delle cinque pietre che rotolavano 2000 Light Years from Home e né, tanto meno, unicamente la stagione dei Beatles persi nei loro viaggi dietro Lucy in the Sky with Diamonds. Perché il 1967 fu anche l’anno in cui Cannes premiò con la Palma d’Oro il film britannico di Michelangelo Antonioni, Blow-Up, ossia l’ingrandimento di una realtà impenetrabile, sfuggente, altra, la messa in scena di un errore che sottolinea la falsità di qualsiasi sicurezza, mostrando in questo modo il significato più profondo della parola ’modernità’. Insieme il cinema, il pop e il rock d’autore portarono la Controcultura di fronte a masse sempre più vaste, stimolandone i sensi e la mente affinché potessero interrogarsi su quale fosse il senso della realtà e quale la materia che la costituisce, in ogni caso mettendo in scena una fuga verso un mondo altro.
Perciò non vi è da stupirsi se ancora il 1967 segnò un’altra rivoluzione, questa volta all’interno del mass-media considerato più popolare e casalingo (ovviamente nei significati più deteriori dei due termini): perché dentro il piccolo schermo si fece largo un prodotto visionario realizzato dalla ITV che furoreggiò tra gli spettatori del globo, divenendo presto una pietra miliare di paragone per il mondo dell’audiovisivo, facendo ancora oggi sentire la propria eco.

Opera di fantascienza e di fantapolitica, Il prigioniero mostrò la coercizione esercitata dal dominio del Grande Fratello descritto da Orwell in 1984, portando nella televisione un sistema in cui l’individuo lotta per non rimanere intrappolato all’interno di una massa informe obnubilata da un potere che incredibilmente quest’ultima vede come amico, in una realtà falsa e costruita che viene fatta passare per vera. Un luogo surreale e asfissiante quello descritto in questa lunga serie di 17 episodi da 50’, che in particolare ha mostrato le catene che immobilizzano la mente umana, in una società sempre più disumana. Soprattutto Il prigioniero è stato seminale per lo sviluppo di opere fondamentali a noi contemporanee, come Matrix e Lost.
Vista quindi l’importanza storica ed estetica di tale opera, di certo la ’Nuova televisione’ non poteva farsi sfuggire ancora a lungo l’occasione di rileggerla in maniera più diretta, guardandola attraverso gli occhi ormai maturi dei moderni mezzi espressivi del piccolo schermo. Ed è stata l’americana AMC ad accollarsi l’onere del caso, realizzando una miniserie suddivisa in sei puntate (curiosamente operando in modo speculare e opposto rispetto a un altro tele remake di questa stagione appena terminata, ossia V, al contrario un prodotto a lunga serialità nato da una miniserie), mandate in onda in novembre negli Stati Uniti in tre serate consecutive. In Italia invece Fx ha scelto una programmazione più tipica, che si è dilungata per sei settimane.

E sei è il numero che qui torna, come ’6’ è il ’nome’ del protagonista interpretato da James Caviezel, un piccolo uomo posto di fronte a un gigante come Ian McKellen nei panni di ’2’ (ove l’attore inglese ci regala una performance da sogno, in assoluto una delle sue migliori negli ultimi dieci anni di carriera). E evidentemente è un po’ un sogno The Prisoner, un’opera a tratti assai coraggiosa nel reinventare quella lontana gloria degli anni Sessanta. Sessanta che ritornano (ancora il Sei, ovviamente) attraverso il décor che ripropone l’atmosfera di quell’epoca, disponendo una fila ordinata di case che si oppone alla caotica circolarità vista nella controparte britannica, dove su di un’isola rocciosa erano racchiuse abitazioni affastellate l’una sull’altra. E, allo stesso modo, la lenta e cadenzata linearità di The Prisoner si allontana dalla soffocante circolarità de Il prigioniero che era rimasto intrappolato in un’acida realtà pop piena di colori, in una confusione che era un mosaico di frammenti impazziti, dove un frenetico percorso di tentativi di fuga si scontrava con continue sconfitte, inframezzate da vari movimenti atipici e da certe posizioni sghembe della telecamera. Al contrario oggi la reclusione negli anni Duemila viene raffigurata tramite case tutte uguali che, così come i pullman e le automobili, possono ricordare Cuba come l’America di mezzo secolo fa, qui immerse in un deserto senza fine con, sullo sfondo, la sagoma evanescente di due grattacieli, di due torri gemelle. E la location è fondamentale per fornire quel senso di attesa che è il basso continuo dell’intera miniserie (il deserto dei Tartari nel quale gli Stati Uniti si sono andati a cacciare?), una scelta comunque audace che è servita per sottolineare ancor più il senso di spaesamento e di abbandono che coglie prima il protagonista e poi, con il susseguirsi delle vicende, anche altri personaggi.
Perché comunque la più grande differenza rispetto all’originale inglese è che ora si è deciso di mostrare la debolezza psicologica e interiore, prediligendo un racconto minimalista che non ha nulla a che vedere con l’esempio del 1967, incentrato su un protagonista pensato sulla falsariga di un James Bond (anche se con molta più ironia) che lotta, in quanto individuo, contro la massificazione. Qui invece la situazione è molto più mesta e cupa con, appunto, una maggiore attenzione verso l’interiorità, esplicitando così una cifra stilistica che accompagna tanta televisione di questa terza Golden Age, spesso molto interessata allo sviluppo e alla profondità dei personaggi. Ne Il prigioniero, però, certe scelte che oggi potrebbero apparire alquanto ingenue – senza che, tuttavia, possano intaccare il suo status di capolavoro – riuscivano di certo a conferire al tutto un profondo senso di robotizzazione dell’essere umano. Sensazione peraltro acuita dalla geniale idea di far interpretare il numero 2 a più attori diversi, mentre ora il solo Ian McKellen è chiamato a un ruolo cui sa donare anche una certa e beffarda umanità, giacché, più che di disumanizzazione, The Prisoner sembra voler parlare di un processo di riumanizzazione, in un percorso di fuga lontano dalla prigione nella quale è rinchiusa la nostra mente.
Rappresentando in fondo una messa in scena, giustamente quello che più risalta di The Prisoner è la sua miracolosa realizzazione tecnica, la quale potrebbe fare impallidire tante produzioni cinematografiche: perché grande è stata l’attenzione con la quale ci si è adoperati nella direzione della fotografia, nella regia e nelle partiture musicale e sonora, per una cornice che riesce a donare un certo fascino - mai fine a se stesso - a un’opera che sconta giusto certe titubanze e alcune banalità della sceneggiatura, oltre che il peccato originale di essere giunta un po’ in ritardo e di non saper graffiare appieno. Tuttavia ciò non toglie che possa costituire un esempio da seguire per il genere particolare del remake, divenendo, in questo senso, una piccola pietra di paragone, la cui eco sarebbe meglio che fosse ascoltata anche da tanto cinema odierno.


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