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Tele Remake – V

Pubblicato il 28 marzo 2010 da Marco Di Cesare


Tele Remake – V

Negli stessi anni in cui Steven Spielberg dominava i botteghini dei cinema disegnando esseri a noi estranei ma molto rassicuranti, nella semplicità del suo assunto iniziale la miniserie in cinque puntate V-Visitors nel 1983 e nel 1984 già si rifaceva a un passato più o meno lontano, richiamandosi a istanze storiche e sociali, oltreché alla stessa storia di tanto cinema di fantascienza. Soprattutto metteva in scena un’invasione con tutti i contorni di quella operata dai Nazisti durante la Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto da loro messo in atto. In un’America specificatamente reaganiana, però, tale scelta poteva anche assumere i colori di un’alba rossa che intendesse altresì mostrare i timori verso la Guerra fredda e implicitamente prospettare agli statunitensi i rischi di un possibile dominio sovietico e comunista (come poteva suggerire il rosso delle divise degli alieni), nel tripudio di un discorso che, comunque, affondava le proprie radici in alcune interpretazioni che vennero fornite a capisaldi della fantascienza cinematografica come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel o La cosa da un altro mondo di Howard Hawks.
Al di là di tale discorso, tuttavia, i Visitors mostravano, come nei due classici appena citati, la doppiezza e i limiti della verità conclamata in un mondo preda di un complotto basato sulla possibilità per degli esseri di prendere le sembianza degli umani. Inoltre i Visitors era un’opera fondata sull’atto del separare e del dividere, su dicotomie che allontanavano l’uno dall’altro individui appartenenti alla medesima specie e altresì ne avvicinavano altri geneticamente lontani, parlava di individualismi e di senso della comunità, di altruismo come di egoismo, del senso di appartenenza, della realtà, della sua manipolazione e del falso, dei mezzi di comunicazione, della salvezza e della panacea per i mali del mondo, della maggioranza silenziosa e della dittatura.

E risulta essere comunque una sorpresa fino ad ora alquanto dolce il suo rifacimento che, mantenendo l’assunto di base, si pone fin dentro le paure dei nostri giorni, tra l’altro variando di molto il ritmo della narrazione, con una maggiore attenzione per la scrittura e per le peculiarità della televisione moderna, con esiti anche interessanti.
Le cinque puntate della miniserie sono qui diventate dodici episodi di una serie che sta seguendo una programmazione piuttosto strana, dal momento che V ha esordito in America sull’ABC dal 3 novembre del 2009 con i primi quattro episodi, mentre i restanti otto cominceranno a essere trasmessi solamente tra pochi giorni, dal 30 marzo; in Italia, invece, la serie ha visto la luce sul canale Joy di Mediaset Premium il 4 marzo, con gli ultimi due terzi della stagione che torneranno in estate.

È un guardare nello specchio il V del 2009: sempre prodotto dalla Warner come l’originale, stavolta viene trasmesso dalla ABC di Lost e di FlashForward, mentre i visitatori del 1983 avevano invece preferito atterrare sulla NBC; l’azione principale negli anni Ottanta si era svolta a Los Angeles, mentre oggi si è spostata sulla costa opposta, nella New York post-11 settembre; il giornalista che aiuterà gli alieni a farsi accettare dall’opinione pubblica non è più una donna, bensì un uomo (Chad Decker, interpretato da Scott Wolf); infine - almeno per quanto riguarda i tre episodi finora trasmessi in Italia – l’incontro tra l’umano e l’alieno, che presumibilmente genererà il cosiddetto ’Figlio dello spazio’, vedrà un essere femminile extraterrestre (Lisa, la Laura Vandervoort di Smalville 7) congiungersi con un maschio della nostra specie, ovvero l’esatto opposto di quanto accadde ventisei anni fa.
Proprio attraverso quell’operazione metalinguistica che è il remake (considerando che, malgrado la maggiore apertura narrativa fornita dallo specifico televisivo alle potenzialità degli script, molti spin-off e sequel sono più che altro delle operazioni di remaking mascherato) è lecito e necessario guardare al proprio passato e all’altro da sé in quanto esempio da seguire e possibilmente da ricreare, per una Televisione che è ormai conscia della propria raggiunta maturità.
E sintomatica dello sguardo risulta essere la prima inquadratura di V, dopo che abbiamo assistito all’affiorare di parole su di uno schermo nero: «Where were you when JFK was assassinated? Where were you on 9/11? Where were you this morning?». Intanto trapelano le luci di una Manhattan che si lascia scoprire dall’alba. Un inizio come tanti per un giorno qualsiasi, mentre la macchina irrompe nella camera dell’agente dell’FBI Erica Evans (Elizabeth Mitchell, la Juliet di Lost), la cui palpebra si solleva veloce, mostrando la pupilla che prontamente si restringe quando viene investita dalla luce diurna. Intorno tremori come avvisaglie di un terremoto, movimenti che si ripeteranno nelle scene successive, quelle che ci mostreranno i futuri protagonisti della serie, sommovimenti che diventeranno sempre più intensi fino a che la città verrà oscurata da una gigantesca astronave aliena (dal dorso e dal colore che ricordano quelli di un rettile e, perciò, assai più inquietante della controparte del 1983, oltreché squisitamente ironica). E dalla nave spaziale, grazie agli odierni effetti speciali, si libererà un bel momento del meraviglioso – non solo televisivo – quando lo scafo diventerà una superficie che si illuminerà e proietterà l’immagine di Anna che annuncerà ai terrestri le pacifiche intenzioni del suo popolo. Anna, ossia la Diana degli anni Duemila (quella Diana che a imperitura memoria rimarrà come affascinante icona di tutta la sadica malvagità di cui il piccolo schermo è capace), è interpretata dalla brasiliana Morena Baccarin, già in Firefly, che parla un inglese presumibilmente perfetto, altrettanto quanto lo sono le voci degli alieni, le quali non presentano lo straniante effetto metallico che avevano quelle dei primi visitatori (particolare tra l’altro accentuato nella versione italiana), proprio per sottolineare la vicinanza con i terrestri e per non scalfire per nulla la propria apparenza.

Perché in fondo rimane l’apparenza la tematica centrale anche di V, procedendo dal culto della personalità fino a una riproposizione dell’Essi vivono carpenteriano (oltreché un richiamo ai cyloni di Battlestar Galactica): perché ora gli alieni non indossano più divise militari vistose, ma altre molto più discrete, se non addirittura eleganti abiti che ancora meglio li fanno confondere con i terrestri.
Confondere e confondersi perciò, poiché gli invasori, che hanno clonato la pelle umana per nascondere il proprio vero aspetto, non sono appena arrivati sulla Terra, bensì vi si trovano da anni: da decenni si sono infiltrati nelle alte sfere della società, dando vita a guerre non necessarie, portando l’economia nel caos e trasformando la religione in estremismo, ovunque creando quindi uno stato di instabilità, agendo come un potere occulto che da tempo sta preparando l’invasione, dopo aver studiato i propri avversari. Tanto che Erica Evans presto comprenderà come i presunti terroristi cui sta dando la caccia in realtà siano gli unici ad avere scoperto la congiura. E la sopraggiunta difficoltà di conoscere l’altro e di riconoscere in lui un proprio simile si manifesterà attraverso una paranoia che tutto coinvolgerà, raggiungendo il culmine quando la donna scoprirà, nell’astronave madre, una miriade di schermi che sorvegliano quanto accade nei vari angoli del globo, mostrando ciò che è ripreso da microcamere nascoste nelle divise degli alieni, ricreando così un mosaico di informazioni che potrebbe un po’ far ricordare FlashForward, ma, di certo, ancor più l’orwelliano Big Brother.
E, diversamente dal 1983, V vive di un senso dell’attesa, come quella cui devono sottostare i visitatori che attendono di ricevere l’agognato visto per poter scendere a terra. Un’attesa che per ora è più importante dell’azione e che permette di soffermarsi maggiormente sui personaggi, potendo usufruire del lavoro di un buon cast e dando vita a un corpo equilibrato dove la tensione non manca, sempre all’insegna della frattura, come nell’episodio pilota, dove si può assistere a due opposti monologhi in un bel montaggio alternato: Anna che parla in diretta a milioni di spettatori (discorso pieno di bugie e di frasi costruite come quelle di un politico navigato) e il capo dei ribelli che rivela il complotto a un manipolo di coraggiosi. Si tratta di poche persone, tra cui si trovano Erica, il sacerdote cattolico Padre Jack (Joel Gretsch: 4400 e Taken) e un membro della Quinta colonna, ossia tre individui che dovranno, in un certo senso, tradire le comunità cui appartengono. Sarà allora questa, quella combattuta tra il Potere e il contropotere, La guerra dei mondi del Duemila?


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