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Televisionarietà – (Lost in) FlashForward

Pubblicato il 9 novembre 2009 da Marco Di Cesare


Televisionarietà – (Lost in) FlashForward

La mente è un oceano nel quale galleggiano, e un po’ riposano, inquieti ricordi, pensieri, sogni e desideri; come sul pianeta Solaris di Tarkovskij o come sull’isola di Lost, dal mondo lontana ma emblema di questo, dove i viaggi nel tempo sono i viaggi nella memoria individuale e collettiva, all’interno dell’Anima Mundi dove vivono i nostri archetipi. È questo un punto, un luogo, un destino al quale ritornare per poter aspirare al compiersi di una redenzione che possa essere salvezza di un’umanità alla deriva.
E come Lost comincia la nuova serie della ABC, creata da Brannon Braga (Star Trek da The Next Generation in poi, Threshold e 24) e David S. Goyer (cosceneggiatore dei due Batman di Christopher Nolan e regista de Il mai nato) che hanno preso lo spunto da Avanti nel tempo, un romanzo del canadese Robert J. Sawyer pubblicato nel 1999. In onda quasi in contemporanea in svariate nazioni (da noi ogni lunedì in prima serata su Fox), FlashForward proprio i naufraghi del volo 815 dell’Oceanic cercherà di sostituire nei cuori dei palinsesti globali, in previsione dell’imminente stagione finale del capolavoro assoluto della terza Golden Age. E anche qui, infatti, subito si mostra in tutta la sua forza distruttrice la morte, viaggio ultimo verso l’altro mondo, corrispettivo di quel mondo altro che verrà man mano preso in esame. Tutto comincia, quindi, con un incidente, ossia l’imprevedibile (per molti, ma non per tutti) che irrompe nella grigia prevedibilità di un quotidiano fatto di un inseguimento al SUV guidato da alcuni pericolosi terroristi, oppure di un’operazione chirurgica o, ancora, di una pistola puntata alla gola, utile per suicidarsi. Il flash-forward sarà la scheggia impazzita che farà sanguinare i corpi, facendo così scoprire alle interiorità più nascoste quello che alberga dentro di loro. Un cataclisma dove l’intera popolazione mondiale viaggerà nel futuro per due minuti e diciassette secondi, verso un ben determinato giorno distante solo sei mesi, il 29 aprile del 2010 (o il 30 aprile, a seconda dei fusi orari). Potrebbe forse trattarsi di un effetto collaterale causato da quanto accaduto nel finale della quinta stagione di Lost che possa coinvolgere l’intero pianeta, essendo comunque proprio quell’isola il suo punto nevralgico? Ad ogni modo, qualunque cosa sia, in molti vedranno loro stessi mentre stanno compiendo atti del tutto banali. Alcuni, invece, non torneranno più da quel viaggio, cadendo come corpi morti cadono, ma senza più rialzarsi, addormentatisi sul più bello e magari rompendosi l’osso del collo mentre stanno salendo le scale. Ma almeno una persona, un agente dell’FBI di Los Angeles, Mark Benford (Joseph Fiennes), vivrà un trip nel quale vedrà indizi che potranno risultare fondamentali per avere una pista da seguire.

«Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra»: come ne Il villaggio dei dannati. È quella la filastrocca – mai così inquietante - che accompagna il cosiddetto ’gioco del black-out’ di alcuni bambini all’inizio dell’ep. 2 (Muove il bianco), il medesimo gioco di ruolo incoraggiato dalla preside del loro asilo già tempo prima, dopo altre due disgrazie che hanno colpito l’America: l’11 settembre e Katrina. Sarebbe quell’asilo il riparo dove Charlie, la figlioletta di Mark e della moglie Olivia (Sonya Walger, la Penelope Widmore di Lost), dovrebbe trascorrere un po’ del suo tempo, spensierata: ma la bambina si sente sola e senza un rifugio, non volendo condividere la propria visione con gli altri, perché sa che essa nasconde qualcosa di terribile. Al di là del facile espediente del fanciullino che unisce l’innocenza a una consapevolezza del terrore, generata da una sensibilità che va oltre il sensibile e che diviene eterno simbolo dei mostri che popolano l’infanzia, si deve dire come alcuni individui possano sentirsi esclusi dalla cerchia della comunità, in un certo senso questa rafforzatasi dopo essere sopravvissuta a un’esperienza talmente traumatica e totalizzante. Così come a ciò è legato il fatto che d’ora in poi ognuno si sentirà come un profeta, almeno secondo il pensiero di Aaron Stark, un amico di Mark che gli dirà anche che «Se qualcuno sta per fare del male alla tua famiglia, prendilo prima che ci riesca. Il mondo è cambiato, anche le regole devono essere rivedute». Mentre a un’altra categoria appartiene chi non ha visto nulla, oltra a uno schermo completamente nero, sintomo che per il 29 aprile potrebbe essere già morto. Un riquadro oscuro che è il massimo della visionarietà e che sembrerebbe negare qualsiasi esperienza ultraterrena, pervenendo così a uno sguardo laico gettato sull’ignoto, laddove alcuni pensano che sia stato Dio a voler punire i peccati degli uomini attraverso quei 137 secondi di ’coma’. In questo modo si viene a configurare una dicotomia insita nel genere apocalittico; solo che qui lo sconvolgimento che ha colpito il mondo potrebbe portare a un catastrofe, oppure no.
Di certo in FlashForward viene espressamente sottolineata l’incapacità dell’amministrazione statunitense di fronte ai disastri di New York e New Orleans. Per cui, già come in Lost, Invasion o Jericho, la televisione, e in particolare modo la fantascienza, si fa carico delle ansie dell’America degli anni Duemila, riuscendo - ma non solo sotto questo aspetto - a superare per intensità, originalità e, in certi casi, sperimentazione linguistica, il cinema ’mainstream’ hollywoodiano, rileggendo e rivitalizzando così il sistema dei Generi e dando nuova forma a paure ancestrali, fornendo anche risposte nuove e una possibile via d’uscita, come la nascita di una diversa umanità in Invasion. E in FlashForward è sinceramente molto interessante lo spunto iniziale fornito dalla figura retorica, generalmente poco utilizzata nella narrazione audiovisiva, che dà il titolo all’intero progetto. In Lost essa viene introdotta nella terza stagione, per dare maggiore respiro e meraviglia a una narrazione fino ad allora spezzettata in tanti flashback. Insieme la prolessi e l’analessi rappresentano un andirivieni temporale che acuisce la sensazione di une (ri)evocazione generale, dove a farla da padrona è la metafisica che giunge fino al misticismo in un’isola sperduta che è il luogo della redenzione per un’umanità (in primis americana) che sta naufragando. Mentre pure nella creatura di Braga e Goyer viene più volte espresso da alcuni personaggi come sia necessario credere di dover compiere qualcosa solo in quanto atto di fede, pur assumendo, il tutto, ancora dei connotati assai laici. Peccato, però, che qui le visioni vengano presentate con troppa insistenza e in modo piuttosto scolastico, brevi lampi che vogliono realizzare una completa sovrimpressione dello sguardo dello spettatore con quello del personaggio di volta in volta coinvolto, conscio di stare inconsapevolmente seguendo i passi verso il déjà vu dell’aprile 2010; in questo modo viene rovinato un ritmo generale che a volte fa perdere colpi a un’opera che, nonostante alcuni difetti, si è finora attestato su livelli perlopiù elevati.

Chi ha visto il proprio futuro, del quale ricorda ogni istante e sensazione, difficilmente potrà non vivere per esso: come dirà Mark in #3 (137 Sekunden) «Mia madre mi diceva sempre: vivi il presente. Di questi tempi qualcuno mi deve spiegare come si fa». Perché tutti si torturano, stretti nella millenaria disputa tra il libero arbitrio e la predeterminazione, memori forse del dickiano-spielberghiano Minority Report, il quale univa l’etica alla fantascienza e al noir, nell’esibizione di un presente che tendeva a essere schiacciato su di un futuro divenuto ineluttabile. E in FlashForward il mystery si alterna a potenti scene di azione, come quella alquanto divertente e straniante che in #5 (Quale verità?) si dilunga sulle note di una Like a Rolling Stone cantata dalla pietre rotolanti, in un apprezzabile gorgo audiovisivo che sa trascinare e dare un senso al racconto, dove un corpo disteso che vorrebbe rialzardi diviene epitome di un’intera umanità. E tale immagine, con in sottofondo una voce beffarda che sa arrecare un certo dolore, vale più di tante parole che a volte troppo esplicitamente - diversamente da Lost - esprimono i dilemmi morali che attanagliano i personaggi e i loro destini, senza adombrarli del mistero che possa far pensare di poterli scoprire piano piano, in questo senso tuttavia coerente con la poetica del flashforward che tutto espone in un vedere spesso senza ostacoli, nella metropoli dell’uomo civilizzato e dei suoi percorsi sicuramente più rettilinei e, soprattutto, potenzialmente capaci di emanciparsi per cercare una vita propria, lontano da un’isoletta sperduta nell’oceano.


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