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Uno di quattro: l’acqua in quanto elemento cardine della poetica di Andrej Tarkovskij

Pubblicato il 29 dicembre 2006 da Marco Di Cesare


Uno di quattro: l'acqua in quanto elemento cardine della poetica di Andrej Tarkovskij

La Terra è tutto (la Madre, la Russia, la Casa); il Fuoco è distruttore benefico, fiamma accesa su una candela, Morte, Speranza e Purificazione; l’Aria è Volo (amore e levitazione, ascesa e schianto, perché «Tutto tende verso il cielo che, per me, non ha alcun valore simbolico. Secondo me il cielo è vuoto e non ci sono che i suoi riflessi sulla terra, nel fiume, nelle pozzanghere…»); ed è così l’Acqua a racchiudere tutti gli altri elementi, archetipo in cui si specchia l’intero cinema del poeta russo.
«Ho usato l’acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma continuamente, che si muove. E’ un elemento molto cinematografico. E tramite essa ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo. […] Il mare lo sento estraneo al mio mondo interiore, perché è uno spazio troppo vasto per me. […] Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso dell’infinito».
E l’unità dell’acqua con gli altri elementi può ben rappresentare la posizione dell’Uomo in “una natura non indifferente”, all’insegna di una religiosità materialista che vede il Creato come un tutt’uno col Divino, idea, questa, figlia di una cultura orientale (il mondo come organismo vivente) unita a un cristianesimo ortodosso secondo il quale Dio è trascendente, ma allo stesso tempo anche capace di toccare la sua creazione, Salvatore insieme umano e divino (e l’unità del creato non potrà che essere rappresentata se non attraverso il piano sequenza e il tempo interiore), concetto ben diverso dalla netta separazione tra mondo tangibile e mondo delle idee che è prerogativa del cattolicesimo: si pensi all’Eugenia di Nostalghia, che vuole godere della bellezza dell’arte di Piero della Francesca, ma senza nutrire in sé una devozione religiosa, in questo lampante esempio della secolarizzazione occidentale, mentre simbolo dell’arte russa è stato il pittore e monaco Andrej Rublëv, emblema di un’arte religiosa e populista, tipicamente slava.

Nell’intera filmografia di Tarkovskij ricorre con insistenza il liquido prezioso, ora sotto forma di placidi fiumi, di lievemente tumultuosi ruscelli, di minuscoli canali e fossati, o di immoti specchi d’acqua, limpidi o sporchi, dentro i quali riposano fluttuanti alghe od oggetti che sono rimasugli del passaggio dell’uomo; ora acque che sono pozzanghere e acquitrini, oppure burrascosi oceani pensanti; acqua sotto forma di pioggia o neve che scende giù da un cielo che abbandona il suo precipitato sulla terra; infine acqua contenuta in recipienti come catini, brocche, bicchieri, pozzi, o acqua presente in scena attraverso i suoi “surrogati” (latte in quanto liquido materno e fonte di nutrimento, vodka trasparente come acqua, lacrime che sono gocce che solcano un viso).

Il Volga in L’infanzia di Ivan è una sporca palude che divide un al di qua da un al di là (un aldilà infernale?), regno fangoso che tradirà il ragazzo, perché «Questo maledetto terreno conserva le impronte; se venisse giù un bell’acquazzone, sparirebbero subito».
E gocce d’acqua divengono messaggi sonori che rappresentano un tramite tra due sfere di coscienza, diurna e onirica. E questo accade quando vediamo la mano di Ivan addormentato, toccata da gocce d’acqua che scendono dal soffitto della trincea; e il nostro sguardo viene accompagnato dalla mdp, fin su, fino a che scopriamo di trovarci in fondo a un pozzo, mentre dalla sua sommità si affacciano Ivan e la madre (uccisa tempo prima da un soldato tedesco). L’acqua è talmente limpida che il ragazzo può specchiarsi nella sua perduta felicità; mentre noi viviamo nel presente, con lui, dall’altre parte dello specchio, in fondo al baratro. L’acqua rappresenta qui il liquido amniotico, ricordo della Madre, che vediamo spesso attingere da un pozzo, acqua che darà poi da bere al suo ragazzo. Perché, come lei dice al figlio: «Quando il pozzo è profondo, ci si può vedere una stella, anche se splende la luce del sole».
Nello splendido epilogo onirico Ivan gioca felice con dei coetanei, in riva al mare; correrà sulla terra che emerge grazie alla bassa marea, con un’acqua limpida che riflette i raggi del sole; la mdp lo osserva, lo segue stando sempre su di lui, guardandolo dall’alto ed evitando, così, una facile via di fuga verso il cielo; ma il nostro sguardo porrà fine al suo cammino andandosi a schiantare contro il nero profondo della cavità di un albero rinsecchito.

Andrej Rublëv. Boris, il giovane fonditore di campane, artista che è speranza dell’Arte per l’Uomo e per l’uomo nell’Arte, si lascia scivolare lungo un declivio, disperato, sotto una pioggia incessantemente torrenziale; grazie a essa, però, troverà la creta adatta a realizzare la sua opera, perché «Amo la terra, non vedo il fango, vedo la terra mescolata all’acqua, il limo da cui nascono le cose» (parole di Tarkovskij).
La pioggia a dirotto trova spesso un suo spazio lungo il film. In particolare giova qui ricordare anche l’episodio del buffone che prende in giro il potere dei boiardi, pagando a caro prezzo il suo coraggio, tradito da Kirill, un monaco compagno di viaggio di Andrej. Il giullare, dopo la sua performance, esce dall’isba, sfidando il maltempo; Andrej e i suoi amici, invece, erano entrati nella capanna proprio per trovare un rifugio, dimostrando, così di essere “ordine” che teme l’alterità.
Così come nel film precedente, l’acqua è spesso quieta, e viene scossa solo dai simboli portatori di furore e morte: lì i proiettili, qui le zampe dei destrieri tartari; ma qui vi è anche l’episodio della morte di Fomà, il giovane aiutante di Rublëv, trafitto da una freccia, che cadrà esanime in un torrente, sollevando grosse gocce d’acqua che andranno a colpire, al ralenti, l’obiettivo della mdp, accecando il nostro sguardo, attonito per tanta violenza perpetrata sugli innocenti.
Nell’epilogo a colori un’icona raffigurante il Salvatore viene bagnata da una pioggia battente, annunciata da un tuono; la statica figura scomparirà piano piano, mentre, in sovrimpressione, vedremo un idilliaco paradiso in terra (nell’accezione orientale?), dove dei cavalli riposano lungo un fiume, sotto la pioggia.

Il padre di Kris Kelvin, lo psicologo protagonista di Solaris, vive in una dacia immersa nella natura e a circondata da laghetti. Sotto una pioggia continua vedremo Kris, inquieto e intento a purificarsi, mentre osserva una natura morta e una tazza di tè che, sotto lo scroscio d’acqua, sembra assumere la fisionomia di un mare in tempesta, prefigurando il tema portante del film.
Perché l’acqua qui, con ogni evidenza, prende la forma dell’Oceano (un mare, però, piuttosto circoscritto e appartenente a un “altro mondo”), organismo vivente che sa restituirci i nostri ricordi e realizzare i nostri sogni, rischiando di portarci, però, incontro alla rovina; e il magma pensante è un labirinto che è il caos della nostra stessa mente, monolito che è segno puro che tutto può contenere e che tutto, invero, contiene, che circonda una base spaziale parte di un universo a sé stante, dove vigono leggi diverse da quelle della Terra - come l’Overlook Hotel di Shining - e dove l’acqua è rappresentata nei suoi diversi stati, dal liquido al gassoso, a simboleggiare la compresenza di tempi diversi nello stesso film.
Sartorius, lo scienziato dogmaticamente razionalista, tenta di annichilire l’Oceano, perché questo li tormenta. E Kelvin chiederà a Snaut perché mai il magma si comporta in tale modo; e Snaut affermerà che noi «Abbiamo perso il senso del cosmo; era più comprensibile agli antichi: loro non avrebbero chiesto perché».

Un passo di una poesia di Arsenij Tarkovskij, recitata ne Lo specchio, afferma che grazie alla passione dell’innamoramento, tutto viene trasfigurato, anche le cose semplici: il catino, la brocca, l’acqua.
In questo film capitale è presente una scena dalla forte e inquietante portata onirica: la madre del bimbo Aleksej (alter ego del regista che qui mette in scena una Recherche proustiana) si sta lavando i capelli in un catino dalla grandezza spropositata, aiutata dal marito che le versa dell’acqua da una brocca; l’uomo presto scomparirà; allora la donna solleverà la testa, ma i capelli bagnati le rimarranno davanti alla fronte, impedendole di vedere, mentre intorno scende della pioggia dal soffitto, facendo cadere pezzi d’intonaco, componendo così un’immagine che dà l’idea della distruzione di una famiglia, ad opera di forze che sono esterne alla sua volontà e più potenti di essa.
Spesso negli interni i pavimenti danno l’idea di essere bagnati, accorgimento questo che, in effetti, permette di raddoppiare le figure inquadrate, quasi come a realizzare uno specchio che rifletta ogni immagine, in tutti i punti dello spazio (e del tempo), ma donandoci un riflesso distorto e appena visibile delle cose, come se queste fossero a stento intuibili, perché lontane nella memoria che vive in ogni rappresentazione. Questo procedimento tornerà anche in Stalker e in Nostalghia: nel caso di quest’ultimo film, però, ciò avverrà con una certa minore insistenza.

Molto conosciuta per la sua infinita bellezza è la scena finale di Stalker: la figlia paraplegica dello stalker, dotata di poteri paranormali, sposta con la sola forza della mente un barattolo e due bicchieri lungo un tavolo, facendone cadere uno, che toccherà il pavimento con un tonfo sordo, ma senza rompersi. Intanto entrano fiocchi di neve dalla finestra. E’ questa un’immagine di pace dopo il travaglio interiore vissuto dal padre, sommovimento emotivo causato dall’aver compreso come non ci sia speranza nell’umanità; noi possiamo, però, capire come ormai solo il diverso possa accedere a un piano sovrasensibile dell’esperienza. Questa scena fa, inoltre, da pendant col prologo: le vibrazioni causate dal passaggio di un treno smuovono un bicchiere pieno d’acqua. Di nuovo l’acqua come metafora dell’interiorità umana.
La città industriale da cui parte il viaggio - sempre fotografata in bianco e nero - è dominata da una centrale nucleare che sembra violare la natura intorno a sé: accanto ha un lago che sembra essere una sua personale fonte di abbeveraggio, mentre il paesaggio urbano è caratterizzato da edifici fatiscenti e pozze d’acqua.
Lo Stalker accompagnerà uno Scrittore e uno Scienziato nella Zona dove si avverano i desideri più reconditi, passando per un territorio rurale abbandonato dall’uomo, dove non si sente il profumo dei fiori e dove il fiume puzza come una palude, dove ogni acquitrino sembra portare con sé solo sporcizia e ricoprire oggetti dimenticati dagli uomini chissà quanto tempo prima.
Vedremo i due “intellettuali” più volte venire battezzati dall’acqua (una cascata, una stanza col tempo riempitasi d’acqua) per cercare di purificarsi, ma senza riuscirci fino in fondo.

Un giorno un uomo ne salvò un altro da uno stagno; giunti alla riva, però, il salvato disse al suo salvatore: «Cretino! Io ci vivo là dentro!». Questa storiella è raccontata da Andrej Gor?akov in Nostalghia: è evidente come in Tarkovskij l’acqua sia più che altro Salvezza e liquido intrauterino, Casa e nutrimento (così come accade a Kirill nell’Andrej Rublëv, quando si salva dall’attacco di un branco di lupi, rifugiandosi e dormendo in un lago per una notte intera). E una vasca termale svuotata d’acqua, quella di Bagno Vignoni in Toscana (nella quale, secondo la leggenda, si immerse Santa Caterina), sarà il luogo dell’ultimo attraversamento dell’intellettuale Gor?akov, da una sponda all’altra, tra Oriente e Occidente, come manifestazione ultima della propria religiosità. E assieme a lui, nello stesso tempo, ma in un altro luogo, morirà il suo unico amico italiano: il “folle” Domenico, che amava dire che «Una goccia più un’altra goccia fanno una goccia più grande, non due!».
Nella conclusione in bianco e nero, Gor?akov è di nuovo a casa, seduto col suo cane, di fronte a una pozzanghera nella quale si riflettono le colonne della cattedrale scoperchiata di San Galgano, in un’immobile fissità attraversata dalla neve che scende lieve e copiosa, portatrice di ordine e pace (in questo diversa da un’analoga scena nell’Andrej Rublëv).

Sacrificio, raffigurando le paure per una prossima vicina apocalisse, sa parlarci soprattutto di speranza.
Alexander vive accanto al mare, in un isolotto del Nord Europa, con la sua famiglia: moglie, figlia ventenne e l’ultimogenito, un bimbo chiamato Ometto. All’inizio del film pianta un albero rinsecchito, in riva al mare, perché crede che un po’ di acqua al giorno, anche se per un tempo lunghissimo, può far rinascere la vita.
Un bicchiere di latte cade per terra: questo è il segno più tangibile del passaggio di due caccia, che sembrano annunciare l’avvento di una nuova catastrofica guerra. Intanto, intorno alla splendida casa di Alexander, tutto diventa fango e pozzanghere, mentre sempre più spesso lui sogna inquietanti visioni di devastazione
L’uomo si convincerà che dovrà sacrificare la sua Casa, per salvare sé e gli altri: assisteremo all’incendio dell’abitazione, attraverso un piano sequenza che riunirà i quattro elementi e la presenza umana.
Alexander verrà dichiarato pazzo e portato in manicomio. Ma Ometto continuerà sulla strada del Padre, dando da bere all’albero, i cui rami secchi domineranno l’ultima inquadratura, sullo sfondo di un mare limpido illuminato dai riflessi del sole, che prima abbacineranno, ma che poi conforteranno, il nostro sguardo.

E in questo modo, con quest’immagine, Andrej Tarkovskij ha chiuso il suo personalissimo percorso, due decenni dopo L’infanzia di Ivan, donandoci una speranza nel mondo e in un’arte che elevi a pura poesia il cinema e tutto quanto ha intorno a sé, lontana da qualsiasi dogmatica limitatezza, arte pura e misteriosa, come una vera religione – ortodossa - e una filosofia - tra la Grecia e l’Oriente - che sappia porci delle domande, più che delle risposte, ricca di un’eterea solidità pregna di un estetismo mai fine a se stesso, regno della Forma ed elegante quanto un teorema che ribadisce e rafforza se stesso di film in film, da vedere e rivedere con amore e passione, ma con la forte malinconia che nasce dall’accorgersi che ci troviamo di fronte a un cammino che è stato troppo presto interrotto.


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