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Televisionarietà: il ritorno di Doc 3

Pubblicato il 13 ottobre 2008 da Edoardo Zaccagnini


Televisionarietà: il ritorno di Doc 3

In giro per il mondo a vedere cose brutte. Più vere e più importanti, con tutto il rispetto per ogni storia, delle sopravvivenze culturali indigene di certo SuperQuark o delle risalite in canoa del domenicale Alle Falde del Kilimangiaro.
In giro per il mondo a guardare nelle case e scavare nel fango, nella neve e nelle macerie di strade contorte di un mondo dannato e pieno di violenza.
In giro per il mondo a vedere verità scomode e necessarie da urlare. Qui ci porta il miglior rapporto esistente tra tv e cinema ricavato da pezzi di realtà messi (con arguzia e talento) uno accanto all’altro.
La televisione e il documentario politico si incontrano di notte, quasi per caso, dentro un palinsesto instabile come una storia d’amore a distanza, su Rai Tre. Il luogo virtuale si chiama Doc3 e i primi lavori mandati in onda in questa nuova serie ci parlano di drammi storici, politici e umani.

Il primo documentario si intitola To die in Gerusalem e parte da un attentato svoltosi il 29 marzo del 2002 in un supermercato di Gerusalemme: una bomba, un adolescente suicida, due morti, panico e disperazione. Poi ambulanze a sirene spiegate, vite falciate e ancora guerra. Due cuori giovanissimi finiti in un botto tremendo. Due ragazze della stessa età: una solo vittima, l’altra vittima e carnefice. L’israeliana Rachel e la palestinese Ayat. La prima aveva diciassette anni e l’altra pure. La prima aveva gli occhi neri e grandi e andava bene a scuola. L’altra pure aveva gli occhi grandi, gli stessi capelli neri e pure lei mostrava attenzione per l’apprendimento. Si somigliavano quasi come fossero sorelle, belle entrambe, con la pelle scura e liscia come quella dei bambini. L’unica differenza, tra queste due morti inaccettabili come altre precedenti e successive alle loro, (oltre ad una nazionalità eternamente conflittuale), era il fatto che una delle due era andata in quel supermercato per fare compere e l’altra c’era andata piena di esplosivo in corpo e con lo scopo di uccidere.
La storia di To die in Gerusalem parte da questo tragico fatto, che non è solo di cronaca ma di terribile storia contemporanea. Chi erano Rachel e Ayat? Due adolescenti cresciute a pochi chilometri di distanza in due schieramenti opposti e inconciliabili. La prima era stata in America e viveva nella normalità di una città pericolosa. La seconda era cresciuta dentro un campo di povertà e rancore accecante, e aveva visto i suoi amici morire colpiti da missili. Per questo un giorno aveva deciso di commettere un gesto sbagliato e assurdo: farsi saltare in aria per procurare la morte di individui sconosciuti.
Dalla tragedia di Rachel e Ayat, la regista 35enne Hilla Medalia trova un modo particolare ed efficacissimo per spiegare il radicamento dell’ostilità tra ebrei e palestinesi: attraverso la necessità di una madre (quella di Rachel) di incontrare i genitori di Ayat e di capire attraverso i loro occhi se questi sapessero e quanto c’era del loro pensiero nella terribile scelta della figlia, la regista entra nelle piaghe delle ragioni che caratterizzano la lotta infinita e sanguinaria tra popoli: è una questione “semplice”, anti ideologica, anti politica, è una questione di spazio fisico, di terra, di occupazione e di ribellione a questa.

L’incontro tra i genitori di Ayat e la madre di Rachel avviene dopo sei lunghi anni, ma non dal vivo, via satellite. E’ un dialogo civile, teso, e soprattutto sordo. Non sembra esserci via d’uscita dalle posizioni politiche di ognuno. I genitori di Ayat sperano che Dio abbia pietà per entrambe le giovani e comprendono bene il dolore di una madre. Non avvalorano il gesto di Ayat ma spiegano con enorme insistenza lo stato di oppressione in cui sono costretti a vivere tanti palestinesi. La madre di Rachel si trova di fronte a un muro ed è lo stesso che gli era capitato di incontrare quando era andata in carcere a trovare un’altra attentatrice: “La terra è nostra e voi ce l’avete sottratta” – si era sentita dire - “Esistono ebrei di tutto il mondo ed ognuno abita la nazione in cui si trova. Ogni stato oppresso e occupato ha sempre lottato per liberarsi dall’oppressore e noi facciamo lo stesso”. La madre di Rachel cita la bibbia e invoca una pace che sembra lontanissima.
Il documentario mostra una piaga antica che sembra insanabile. La lotta tra gli schieramenti è sentita ad ogni respiro, sotto ogni angolo di una pelle indurita e segnata dal dolore.
Con questo lavoro si comprende ancora meglio la profondità della ferita e quanto il fallimento della politica internazionale parta da un conflitto avvertito chiaramente dagli strati più bassi della popolazione.

Il secondo documentario si intitola 211: Anna ed è un omaggio alla giornalista russa Anna Politkovskaja.
Chi avesse potuto pensare che la dittatura in Russia sia finita col crollo del muro si sbaglia di grosso: il paese governato da Putin uccide i dissidenti e filtra la libera comunicazione.
Il titolo ha un nome ed un numero: il nome è quello di Anna, la giornalista russa che viveva il suo mestiere come una missione, che si schierava sempre a favore della verità e degli sfruttati. Il regime la uccise due anni fa nell’androne del suo appartamento. Il numero del titolo quantifica i giornalisti uccisi dal nuovo sistema dal crollo del regime sovietico ad oggi. 211, appunto.
Il documentario racconta il personaggio di una giornalista vera, appassionata e determinata, e insieme al suo personaggio/persona le violenze antidemocratiche del regime russo contemporaneo. Anna Politkovskaja si era occupata con insistenza dei drammi caucasico e ceceno; per questo, ma non solo per questo, si era attirata addosso le mire violente dei colonnelli russi.

La Russia di oggi è un paese terribile, ci dice questo documentario, dove i giornalisti e le persone hanno paura a parlare, dove il male perpetra e dove il potere è nelle mani di pochi pericolosissimi criminali. Nel film vediamo il viso della giornalista e sentiamo la sua voce raccontare la situazione. C’è spazio anche per qualche parola su Berlusconi, che di Putin è amico e confidente. Secondo la Politkovskaja, prima o poi un tribunale internazionale dichiarerà Putin un criminale di guerra e Berlusconi sarà stato un sostenitore di questo criminale.
211: Anna ripercorre tutta la carriera di Anna Politkovskaya, dagli inizi accanto al marito, giornalista e conduttore di uno dei primi programmi “liberi” dell’era Gorbaciov agli articoli sulla Novaja Gazeta. _ Il documentario contiene immagini inedite e rare della giovinezza di Anna e propone alcune sue testimonianze filmate nei mesi precedenti al suo omicidio. Negli ultimi tempi stava conducendo un’inchiesta sulle torture e sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia e ripeteva spesso “E’ un miracolo se sono ancora viva”.
Sono passati da poco due anni da quando la giornalista russa è stata barbaramente uccisa. Le indagini sono appena cominciate e il processo sarà effettuato da un tribunale militare. Non sembrano esserci molte speranze per la verità, ma, come dice il conduttore di Doc 3 (Alessandro Robecchi) nell’introduzione a questo importante e ben costruito documentario di Giovanna Massimetti e Paolo Serbantini, quando muore un giornalista (sincero) muoiono due cose: il giornalista e la verità. Questo documentario prova a far sopravvivere la seconda, la verità.


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