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Televisionarietà - Lipstick Jungle e Diario di una squillo: il sesso post Sex and the City

Pubblicato il 23 febbraio 2009 da Fabiana Proietti


Televisionarietà - Lipstick Jungle e Diario di una squillo: il sesso post Sex and the City

Che i canali Fox fossero maestri nell’arte di confezionare, pubblicizzare e vendere al meglio le proprie serie era ormai cosa nota. Questo mese, la programmazione di Fox Life, canale tra i quattro della scuderia Fox dedicato a un’audience prettamente femminile, ha sferrato il colpo del knock out. Una serie per ogni diverso giorno della settimana, selezionate tra quelle di maggior successo negli Stati Uniti. Dalla doppietta sexy ospedaliera di Grey’s anatomy e Private Practice, al family delle Desperate Housewives e dei Walker di Brothers and Sisters, fino alle nuovi lanci di Lipstick Jungle e l’erotismo di Satisfaction e Diario di una squillo perbene.
Questa volta, però, alla consueta perizia nel campo del marketing, non corrisponde un adeguato livello creativo ed estetico. La domenica “incendiaria’’ promulgata negli spot con il trittico Sex and the City (ennesima replica, dopo quelle di Comedy Central e La7), Diario di una squillo perbene e Satisfaction, serie australiana sulle operatrici del sesso di un bordello di lusso, si rivela tutto fumo, senza traccia di incendi. Anzi, la tanto sbandierata serie britannica, Secret Diary of a Call Girl, tratta dall’ormai celeberrimo (in patria) blog di una sedicente prostituta d’alto bordo, si rivela una delle serie al femminile più noiose e visivamente banali dell’ultimo decennio.

Nonostante la protagonista Billie Piper ce la metta tutta nel tentativo di sedurre lo spettatore raccontandogli la vita segreta di questa ragazza londinese, Hannah alias Belle de Jour, senza elemosinare sguardi in macchina, “a parte” verso il pubblico come neanche in una commedia di Plauto, e strizzatine d’occhio che, probabilmente, vorrebbero rompere la quarta parete con mezzo secolo di ritardo.
La sessualità è evidentemente ancora un argomento tabù. Anche quando esibita. Oppure, proprio per questo. Perché nonostante i nudi della protagonista, nonostante gli atti filmati in modo sufficientemente esplicito – ma non quanto sarebbe sufficiente per una serie che si proponga come ‘anatomia della squillo’ – l’impressione immediata di fronte a Diario di una squillo perbene è che sia l’aggettivo a prevalere e a permeare di perbenismo, appunto, la messa in scena. Belle de Jour è una prostituta ma potrebbe essere un commercialista, un idraulico, un qualunque libero professionista alle prese con gli inconvenienti del mestiere, da cui la professionalità lo trae in salvo : il suo spin off potrebbe essere il "Diario di un dentista furbetto", con il medico in questione a fare otturazioni da poco o senza ricevuta fiscale, occhieggiando allo spettatore con un sorrisino beffardo.
Ma una ricerca tematica o espressiva circa la sessualità è quanto di più lontano esista dal prototipo ideato dalla BBC e il confronto con Sex and the city, in onda subito prima, si rivela nettamente perdente.

È strano come nella storia della serialità televisiva, i progressi di un singolo programma, l’abbattimento di alcune barriere sociologiche o linguistiche, non introducano sostanziali cambiamenti nei prodotti successivi.
Così, la rottura di Sex and the City, la rivoluzione apportata dallo show della HBO nella rappresentazione della sessualità femminile, sembra confinata alle avventure delle quattro single di Manhattan : se si pensa agli amplessi di Samantha – messi in scena con uno spiccato gusto ludico, ma non per questo meno espliciti – le peripezie di Belle de Jour appaiono pallide e noiose imitazioni. Senza contare l’inversione prodotta sulla sfrontatezza del linguaggio, per cui alle “parolacce” ‘cazzo’ o ‘pompino’, proferite tranquillamente in Sex and the City, si sostituiscono delle perifrasi che non intaccano il bon ton.

Ma a fare un passo indietro non è solo la rappresentazione della sessualità, qui ridotta a perbenista fantasia semi-erotica di una società che pare tanto repressa da non saper osare nemmeno con il pensiero oltre i cliché imposti dalla società (le richieste dei clienti sono sempre le stesse : rapporti a tre o frustate bondage) ; anche la stessa condizione femminile viene recuperata senza un briciolo di originalità, e anzi, andando a contraddire quegli stessi presupposti che avevano reso Sex and the City così catartica e liberatoria.
Lipstick Jungle è il riferimento più prossimo alla serie della HBO già sulla carta : entrambe nascono dalla penna di Candace Bushnell, autrice degli articoli e successivamente dei libri che hanno ispirato le serie, nonché il personaggio della columnist Carrie Bradshaw, interpretata da Sarah Jessica Parker. Abbiamo parlato diffusamente dei meriti della serie, portatrice di una rivoluzione nella commedia sentimentale televisiva analoga a quella di CSI Las Vegas nel campo della detective story. Non solo per aver sovvertito gli schemi narrativi imposti al piccolo schermo, ma per aver fatto della riflessione metalinguistica il terreno più fertile per le proprie sperimentazioni.
La parola chiave è ibridazione. Sex and the City ha raccontato le donne di fine e inizio millennio, il sesso e la vita metropolitana mescolando una molteplicità di linguaggi, sconfinando persino nella scrittura video, con le parole che si riflettevano dal monitor del portatile di Carrie allo schermo televisivo dello spettatore.

Ora, alla luce di tutto ciò, pretendere che il pubblico si emozioni per le soap opera trite e ritrite delle tre protagoniste dello sbiadito Lipstick Jungle è forse chiedere troppo. Tutto nella serie della rete NBC fa pensare a un Sex and the City da discount : una protagonista in meno, una New York più banale, scarso sviluppo del coté fashion, nonostante uno dei personaggi vesta i panni di una stilista. Eppure, l’impianto produttivo è quello di un prodotto mainstream, assai più dispendioso del modello, che solo nella versione cinematografica aveva dato sfogo allo sfarzo dell’alta moda. Dai 30 minuti canonici da sit-com di Sex and the City ai 50’ di un serial maggiorenne, Lipstick Jungle sfoggia un tono molto più formale, probabilmente più chic ma al contempo freddo, gelando la possibile empatia di un pubblico che, convinto di affrontare una ‘giunga di rossetti’, si trova ad assistere alle crisi esistenziali di tre donne sui quaranta, in cui l’ironia feroce si è diluita in una malinconia per cui il successo sembra non contare nulla senza la serenità nella vita privata.

Se da un lato dà sollievo pensare che il terribile slogan di lancio "Loro non cercano Mr. Big…Loro sono Mr. Big !" sia subito smentito, dall’altro dispiace vedere che la condizione femminile tanto in campo sentimentale che nella dimensione lavorativa venga risolta con dei cliché, analogamente a quanto accade con la finta-cinica Belle de Jour di Diario di una squillo.
Il corpo sexy e giovane di Kirby (Robert Buckley : l’unico a imporsi con un appeal che ricorda il Brad Pitt di Thelma& Louise) che tenta la top manager Nico – interpretata dalla vulnerabile Kim Raver – l’appellativo di ‘virago’ in cui incappa suo malgrado Wendy (una Brooke Shields scavata e decisamente imbruttita) per il suo successo nel lavoro a scapito del ruolo di moglie e madre, e, infine, l’atteggiamento da vittima di Victory (Lindsay Price), in crisi nel lavoro e costantemente salvata dal miliardario buono Joe, interpretato dal principe azzurro delle teen comedy anni ’80 Andrew Mc Carthy, paiono degli stereotipi che, trattati diversamente sul piano espressivo, avrebbero anche una loro valenza sociologica. Ma nell’apatia linguistica affondano anche i presupposti antropologici e la serie prende la rotta della soap.

Forse la chiave per comprendere quando si è di fronte a qualcosa di nuovo sta nella domanda che ci assale prima dell’episodio successivo : non cosa accadrà ai protagonisti, ma come sarà posto l’evento narrato, in che modo l’oggetto-ufo serial potrà stupire ancora in mezzo a questo marasma di immagini e fatti che ci avvolgono ogni giorno.


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