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Televisionarietà - Paolo Borsellino: quando la fiction è d’autore

Pubblicato il 30 gennaio 2008 da Fabiana Proietti


Televisionarietà - Paolo Borsellino: quando la fiction è d'autore

Nelle nostre analisi sulla serialità televisiva abbiamo finora dato precedenza ai prodotti statunitensi, pregevoli per fattura e interessanti per l’impatto mediatico sul grande pubblico. Abbiamo cercato di rilevare come i serial made in Usa del nuovo millennio abbiano assunto, di fatto, il ruolo che negli anni dello Studio System spettava al cinema di genere: attrarre le folle, proponendo pellicole diversificate e di solida fattura, in grado di abbracciare un pubblico eterogeneo, offrendo una fuga dai problemi della vita quotidiana ma nutrendosi, poi, proprio di quei sentimenti di crisi per inocularli nella narrazione cinematografica con esiti catartici.

Come emerso dai riscontri deludenti del Roma Fiction Fest la fiction italiana non ha ancora raggiunto la maturità sufficiente per far sì che l’intuizione del singolo diventi regola generale: così, ad una felice casualità che sembra aprire qualche prospettiva alla nostra televisione, seguono imbarazzanti tentativi per nulla riusciti.
Ma è proprio delle eccezioni del nostro panorama televisivo che intendiamo parlare adesso, tentando di analizzare - e, laddove possibile, commentare direttamente con i realizzatori - quelle isole felici della serialità italiana che sembrano aver colto la lezione del cinema di genere ed esplorato le potenzialità del medium televisivo, diverse dal cinema per tempi e modi di scrittura e sperimentazione visiva.
C’è da notare come dietro ogni fiction di qualità si celi quasi sempre un autore cinematografico, consapevole del mezzo e capace di osare là dove altri si atterrebbero a un più mediocre compitino. Ma quello nella fiction d’autore è un viaggio che deve necessariamente andare un po’ indietro nel tempo, recuperando le incursioni di personalità eclettiche – il Pupi Avati del 1996 con la bellissima miniserie esoterica, Voci Notturne o il Michele Soavi alle prese con il thriller/noir de L’ultima pallottola – destinate a diventare dei modelli per la serialità italiana.

Il biopic di Gianluca Maria Tavarelli

Per il debutto di questa nostra indagine televisiva abbiamo scelto il più grande successo televisivo degli ultimi anni, Paolo Borsellino, e il suo autore, Gianluca Maria Tavarelli, che sta rifondando lo stile del biopic televisivo (ne ricordiamo anche il più recente Maria Montessori, interpretato da Paola Cortellesi, vincitore al Roma Fiction Fest dei premi per migliore attrice e miglior sceneggiatura).
Paolo Borsellino, film per la tv che racconta in modo teso e con tempi serrati la costituzione del Pool Antimafia di Rocco Chinnici e l’operato dei due magistrati di punta del team, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è uno dei pochi esempi di equilibrio raggiunto tra la sfera pubblica – l’incarico gravoso, le indagini e la lotta sul territorio contro la radicata cultura mafiosa – e la sfera familiare, di uomo, padre e marito. Nessuna delle due prende mai il sopravvento sull’altra ma vengono anzi a compenetrarsi nella misura in cui è la coerenza e il senso civico innato dell’uomo privato a riprodursi su larga scala nel lavoro di magistrato.
La biografia della celebre pedagogista Maria Montessori, al contrario, è raccontata con un approccio personale e riservato che non mira soltanto a recuperare la figura, da qualche anno semi dimenticata, di una grande scienziata ma si pone piuttosto come un’indagine - dall’ottica dichiaratamente moderna - sul ruolo della donna nella società e nella famiglia, prendendo la scienziata a paradigma dell’emancipazione femminile.

E’ proprio la scelta di un preciso criterio narrativo, adeguato alla materia trattata e diversificato a seconda della prospettiva adottata per il personaggio, la novità maggiore di questo approccio al biopic. Un’operazione rischiosa dinanzi alla quale anche il cinema mainstream ha finito spesso per soccombere, quando non sostenuto da un’idea forte - anche imparziale - che denotasse una precisa scelta di campo.
Nel biopic televisivo di Tavarelli manca fortunatamente quella mimesi posticcia, quella teoria dell’attore-replicante che rende la maggior parte delle biografie cinematografiche piattamente illustrative. C’è - forse anche in virtù della sostanziale ‘povertà’ del mezzo - una presa di distanza dal personaggio, la cui vita viene citata come un exemplum di cui appropriarsi senza remore, per raccontare attraverso il singolo eccezionale la storia (stra)ordinaria di un popolo e una nazione.


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