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Televisionarietà - Skins

Pubblicato il 6 novembre 2009 da Giampiero Francesca


Televisionarietà - Skins

I do want someone. I need someone’ ( Naomi Campbell - Skins )

A volte non è sufficiente raccontare la realtà. Non basta mostrarla, indicarne con sufficienza i punti deboli, sottolinearne, peggio se con tono falsamente retorico, le debolezze, i vizi, le brutture. Anzi, a volte, fermarsi alla semplice messa in scena di questa realtà, equivale a dipingerne un elogio, a scrivere un’apologia dello status quo, senza mai chiedersi il perché, senza mostrare le ragioni profonde che muovono gli uomini e ne determinano i comportamenti. In questi casi, la realtà naturale non basta. Bisogna forzarla, esasperarla, acuirne i contrasti e i conflitti, sfumandone i contorni con i colori del grottesco e dell’assurdo. I colori con cui Jamie Brittain e Bryan Elsley hanno ombreggiato i cieli inglesi di Bristol e tinto le anime dei protagonisti di Skins.

Tony Stonem, Michelle Richardson, Sid Jenkins, Cassie Ainsworth e tutti i ragazzi che si muovono per le strade di Skins vivono la loro vita all’eccesso. Bevono smodatamente, fanno uso di droghe, sono lacerati da profondi complessi e ossessioni. La loro adolescenza è un momento difficile, un percorso arduo, fatto di continue difficoltà ed ostacoli che mettono alla prova le loro fragili esistenze. In fondo non siamo ancora così assuefatti alle storie di casa nostra da non domandarci quale delle realtà messe in scena sia, davvero, la più visceralmente verosimile. È più vero il disagio di Sid, chiuso, protetto dal suo berretto calato in testa o gli amori da cartolina legati ad un lucchetto di Ponte Milvio? È più intimamente reale il rapporto malizioso e manipolatore di Tony e Michelle o le nostre meravigliose prime volte fra le lenzuola appena stese sulla terrazza di una palazzina romana?

Pur lasciando da parte, solo per un momento, questa incolmabile differenza è impossibile non cogliere i trait d’union che legano i protagonisti dei nostri teen drama a quelli del resto del mondo, Inghilterra compresa. Siano infatti i giovani belli da Bacio Perugina o quelli arrabbiati sulle musiche dei Clash, tutti i personaggi appaiono spaesati, fragili, persi, costretti ad inseguire una vita che corre molto più veloce di loro. La differenza (e la forza) di Skins sta solo nel mostrare, proprio grazie all’enfasi e all’esagerazione, la matrice di questo disagio: la paura. È paura di rimanere da soli quella che imprigiona in relazioni impossibili, che fa scappare di letto in letto, che fa cercare il calore di una pelle come surrogato di un calore umano. È paura di un futuro che non esiste, di un domani utopia, quella che costringe a vivere “tutto e subito” e obbliga a provare in pochi mesi (o minuti) quello che una volta si sperimentava in una vita (o in un stagione televisiva). È paura, quella più angosciante e insostenibile, di non esistere (come nel caso della Nothing del delicato Dear Lemnon Lima) quella che porta a mostrarsi a tutti costi, a trasgredire, a dover manifestare a tutti (e soprattutto a se stessi) la propria individualità clone. In questo l’angosciante alienazione dei ragazzi di Brittain & Elsley, è esemplare. Una sofferenza profonda quasi insopportabile, che diviene, nella terza stagione definitivamente insostenibile. Ed è probabilmente per questo che la coppia di autori ha connotato il terzo anno di Skins con una vena di ironia boccaccesca, in grado di spezzare la tensione drammatica altrimenti intollerabile.

Grazie a questo approccio alla realtà l’opera di Brittain & Elsley può esser considerata più vera dello spicciolo e falso realismo dei nostri teen drama. Quello che resta da capire è l’impatto che prodotti così diversi hanno sul loro pubblico. Uno dei difetti della produzione italiana riservata ai giovani è infatti proprio quella di mantenere sempre un punto di vista troppo adulto, che da un lato non tiene in considerazione dalla reale percezione dei problemi e delle insicurezze dei teenager e dall’altro approfitta dell’impatto profondo di questi prodotti per promuovere e vendere i propri modelli. L’atto stesso di ragionare sul perché dei problemi, di capirne le radici è, per questi ultimi, un’aberrazione, un’azione controproducente che metterebbe a repentaglio il loro business. Al di là delle componenti estetiche e narrative c’è dunque una motivazione quasi etica che deve spingere alla realizzazione di buoni teen drama come Skins.


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