Terra, Madre, Visione: Il Cinema declinato al femminile secondo Andreij Tarkovskij

Il brivido di smarrimento e spaesamento che corre lungo la schiena quando ci si ferma a contemplare un panorama contenuto in un’inquadratura di Andrej Tarkovskij è sicuramente imprenscindibile dalla contemporanea, spiazzante sensazione di calore e appartenenza che libera la percezione dalla necessità, tutta razionale, di dovere giustificare per forza ciò che si sta osservando attraverso delle coordinate geografico - spazio - temporali. Questo può accadere soltanto quando ci si rende conto che ci si sta confrontando con qualcosa che ci appartiene profondamente, visceralmente, come se fosse stato proiettato fuori e condiviso al di là delle barriere culturali e linguistiche, facendo dello sguardo lo strumento portatore di una quieta ma implacabile forza indagatrice della vita interiore e delle sue immagini.
_ Questo complesso, a volte insondabile, procedimento, nonostante la limpidezza e la nitida definizione dello sguardo, mai come in Tarkovskij ha avuto a che fare con il significato di creazione, allegoricamente espresso nel rapporto tra la Madre, fonte e ’creatrice’ di vita, e ciò che è stato creato, generato e che, inevitabilmente, riporta in maniera quasi ossessiva, disperata a quella fonte, come se la bellezza non potesse che esistere e rigenerasi continuamente in una osmosi tra ciò che si è e ciò che si diventa, tra il punto di partenza e il punto di arrivo, tra i luoghi della carne e quelli del pensiero.
In fondo, fin dal suo debutto nel 1962 (L’infanzia di Ivan) la febbricitante, e al tempo stesso dilatata, traiettoria seguita dal cineasta russo è stata sempre percorsa da una tensione costante e sofferta verso l’identità primaria, basilare che nel caso di Ivan, il dodicenne che fa la staffetta per la resistenza russa durante la seconda guerra mondiale, si chiama appunto Infanzia, trasfigurata in luogo della memoria e del sogno e incarnata nel volto di una madre che appare in cima al bordo di un pozzo, a sottolineare ancora con maggiore struggimento la fragilità e l’instabilità che mina il pur solidissimo amore materno. La dolorosa spaccatura tra un qui ed ora dove il tempo è regolato dalle procedure, dai riti e dai meccanismi culturali degli uomini, che siano i soldati della resistenza russa piuttosto che un’équipe di scienziati chiamati a studiare il fenomeno di un pianeta sconosciuto o un poeta che riflette sul proprio passato e sul significato del suo ruolo nel presente, e una realtà parallela dove c’è la possibilità di regolarsi sul tempo della propria coscienza e di rivelarsi nella sfaccettata, multiforme eppur autentica verità di essere umano, si concretizza in un linguaggio binario, in due idiomi paralleli, due mondi che comunicano tra loro cercando un punto di contatto, o meglio il punto di contatto per eccellenza, quello tra la nascita e la morte. E Tarkovskij attribuisce alla donna la capacità di parlare la lingua dell’anima e di insegnarla anche agli uomini, oltre quella di identificarsi con la natura paesaggistica di una Russia che rimane immutata, segreta, personale, umanizzata, abitata, oltre che dai corpi, da sentimenti di generosità, accoglienza, sopportazione e pazienza nell’aspettare il ritorno dei suoi figli che solo la donna-madre possiede.
Possiamo arrivare a dire che, anche se a livello narrativo la
spiegazione logica vorrebbe che Hari, moglie suicida dello psicologo Kris Kelvin, fosse una ’proiezione’ del senso di colpa indotta dal pianeta
Solaris, e che la madre\moglie di Aleksej, il protagonista de Lo Specchio, una ’rievocazione’ sovrapposta e confondibile di una crisi esistenziale ed emotiva, Tarkovskij rovescia questa prospettiva rendendo questi fantasmi vivi, vibranti, dotati di uno spessore che travalica l’immaginazione, le fantasticherie e il pensiero e trasforma gli uomini in ombre stinte, insicure, con tutte le loro certezze intellettuali crollate davanti alla vita scolpita del tempo, radicata nella terra. Non a caso l’autore\narratore, L’Aleksei adulto, assume una dimensione sempre più distante, lontana nella voce e nel corpo e c’è sempre più spazio per la sua versione ’bambina’ e per il corpo identico e coincidente della madre e della moglie che, in un gioco di rimandi e di riflessi di rara suggestione e finezza, esprimono lo stjesso dolente senso di abbandono da parte di un uomo (il padre di Aleksej, lo stesso Aleksej). Così come nel rivivere il rapporto con Hari, Kelvin rivivrà anche la madre e il dolore della madre, divenendo lui stesso senso di colpa vivente, carne staccata dalla carne, chiusa in un freddo intellettualismo che scarta per difetto i concetti di Anima, di Amore, di Dio in una sottile critica all’autoritarismo del regime sovietico che neutralizzava il sentimento della fede con la pratica ufficiale dell’ideologia.
E il distacco, che per Tarkovskij si concretizzerà ’ufficialmente’ con l’esilio, accrescerà, se possibile, lo struggimento delle immagini e la sensibilità visionaria, affidando a quest’ultima la totale, incodizionata e inesauribile possibilità di rigenerare la Terra, filtrata nell’atto della memoria maturata, divenuta suo malgrado sentimento: Nostalghia, compagnia di viaggio che confonde, illude, tende ad idealizzare e a rendere estetizzante il paesaggio che è luogo imprecisato tra il ricordo della Russia e il momento dell’itinerario in Italia, compiuto da un poeta che sa che al termine di quel percorso ci sarà l’eterno ritorno del ricordo divenuto condizione permanente, eterna.
Il ventre femminile che tutto contiene e che è sordo ai rumori della Storia e delle sue contraddizioni ma aperto all’ascolto dei sussurri e delle grida dei piccoli individui che ha liberato per il mondo, che chiude la visione sulle brutezze e sul dolore e apre una fessura sulla speranza, sulla comprensione reciproca, sulla pace del corpo e dello spirito.
