Testimone d’accusa

Tratto dall’omonima pièce teatrale diretto dalla stessa Agatha Christie, autrice anche del racconto, non un romanzo, Testimone d’accusa datato 1957, ha dietro la macchina da presa Billy Wilder. Con questo film il regista interrompe la serie leggera, con quello che si rivelerà l’ultima parentesi dedicata al genere “giallo”. Pur svolgendosi quasi interamente dentro il tribunale dell’Old Bailey (ricostruito in studio da Alexandre Trauner) si accorda benissimo con i lavori di Wilder perché ritmato dai suoi caratteristici lampi di spumosa allegria.
Vole (Tyron Power) è accusato di aver ucciso una ricca vedova, il caso vuole che il testamento di quest’ultima, scritto pochi giorni prima della sua morte, lascia proprio a Vole una notevole parte. A complicare il tutto si aggiunge l’atteggiamento ambiguo di sua moglie, Christine (Marlene Dietrich). Sir Wilfred Robarts (Charles Laughton) è un celebre, ma anziano, avvocato che assume la difesa dell’imputato nonostante la sua salute non sia più di ferro. Durante il processo riesce a invalidare l’accusa, dato che Christine chiamata a testimoniare dall’accusa, depone negativamente nei confronti dell’alibi fornito dal marito. Grande difficoltà per Sir Roberts che riceve un aiuto, prima dell’udienza finale, da una donna misteriosa che gli cede delle lettere in cui è dimostrata la colpevolezza di Christine stessa in quanto, d’accordo con un amante, avrebbe architettato un piano ai danni del marito. E’ la donna stessa a riconoscere come sue quelle lettere e dunque decade la sua precedente deposizione, con assoluzione per Vole. Arriva il colpo di scena perché sarà proprio la moglie “traditrice” a rivelare all’avvocato che le lettere non sono state altro che un trucco per fare effetto in quanto Vole in realtà è colpevole, ma grazie al suo gesto amorevole è salvo. A questo punto compare una donna, che si rivela essere amante del marito, con la quale ha programmato da tempo di scappare. Christine colta dalla rabbia a causa dell’inganno e dell’umiliazione subita uccide Vole e Sir Roberts ne assume la difesa perché non può e non vuole certo tirarsi indietro. Ciò che il film mostra è che l’estrema intelligenza dell’avvocato è il segno stesso della sconfitta. E’ usata per far scoprire ciò che già in partenza era stato stabilito dovesse essere smascherato. L’inganno non è nell’oggetto dell’indagine, ma nell’indagine stessa. Nessuno avrebbe mai creduto alla menzogna di Christine se presentata come verità, che invece diventa credibile quando assume le vesti di menzogna smascherata. La faccenda si complica perché una menzogna si traveste da verità a sua volta travestita da menzogna. Lo smascheramento è in realtà l’occultamento stesso e l’inconsapevole tramite è l’avvocato: fallendo proprio perché riesce. Viene da chiedersi come mai il vecchio e malandato Robarts decida di accettare la difesa e la risposta sta nel fatto che l’imputato gli è simpatico e vuole difenderlo non tanto dall’accusa di omicidio, ma dalle insidie della moglie, in quanto donna la cui testimonianza dovrebbe confermare l’alibi del marito. Evidente è la corrente di simpatia Robarts – Leonard e quella di antipatia Robarts - Christine alla quale si affianca la tracotanza manifestata nei confronti della povera e bistratta infermiera (Elsa Lanchester) che ha il compito di non farlo stressare e per queste sue “eccessive” cure viene ingannata con i tipici contenitori – trappola di Wilder, in questo caso il thermos che dovrebbe contenere cioccolato caldo, riempito invece di whisky. Testimone d’accusa è sia una pietra miliare nella storia del cinema che un vero gioiello nella filmografia di Billy Wilder, con la presenza dei temi conosciuti del regista. Ritroviamo l’uso della menzogna e del raggiro da parte dei personaggi, onnipresente nelle sue pellicole, basti pensare a La fiamma del peccato, Baciami stupido, Non per soldi…ma per denaro. Ancora l’impossibilità di individuare la verità dei fatti se non quando è troppo tardi, come accadrà al più grande investigatore di Inghilterra in uno dei film più aspri del regista: La vita privata di Sherlock Holmes. La sceneggiatura è coinvolgente, frizzante e riporta benissimo l’atmosfera del racconto e il film affascina, diverte e interessa fin dalle prime immagini. Nel 1958 ricevette numerose nomination agli Oscar, fra le quali: miglior regia, miglior attore protagonista per Charles Laughton e miglior attrice non protagonista per Elsa Lanchester. Questo ruolo fu scritto appositamente per il film e le continue punzecchiature che si scambiano i due come se fossero marito e moglie, rispecchiano un legame coniugale nella vita reale. Laughton vinse il David di Donatello come miglior attor straniero.
Per quel che riguarda il ruolo di Leonard Vole, Billy Wilder inizialmente propose William Holden e prima di scritturare Tyron Power furono presi in considerazione Roger Moore, Gene Kelly, Kirk Douglas e Glenn Ford, insomma varie star prima di Power, forse perché fino a quel momento non aveva mai interpretato personaggi ambigui era sempre stato il grande eroe e nonostante ciò sostiene benissimo il ruolo, mai un calo di credibilità, grinta e ambiguità. Fu anche il suo ultimo film e certo non si può trascurare l’altra grande star, “l’Angelo Azzurro” Marlene Dietrich, nei panni di una donna che ama al punto tale da distruggersi e schiavizzarsi. Un gioco di smascheramento dei personaggi che sembra quasi un cubo di Rubik, basato su un concatenarsi di apparenze e falsità, che dimostrano quanto invece sia importante non fermarsi mai di fronte a ciò che ci viene mostrato in superficie. Fra le curiosità si racconta che per mantenere questa ambiguità anche durante le riprese, gli attori non conoscessero il finale del film, rivelatogli solo l’ultimo giorno.
