Thank you for the music!

Una delle grandezze perdute del cinema è sicuramente quella di riuscire a trovare un tramite, un collegamento, un percorso di riconciliazione tra le immagini e i fantasmi della memoria e la forza irrefrenabile, dirompente del presente, del momento unico e irripetibile. A volte sembra che il linguaggio cinematografico sia condizionato in maggior misura da quest’ultimo aspetto - quello dell’istante - diventando il riflesso talora impietoso del cinismo dominante di una società che non sa più guardare al proprio passato, non ha più valori, più identità. Forse si ha paura che il raccontarsi, con la sua natura mutevole a seconda delle voci, dei volti, delle parole che ne sono lo strumento espressivo, possa distogliere l’attenzione dalla vita nel suo farsi, nel manifestarsi qui ed ora, come se l’altrove temporale e spaziale fosse qualcosa di estraneo, sconosciuto, invisibilmente parallelo.
Per questo Robert Altman fa un cinema che trasmette un senso di felicità e al tempo stesso un sentimento di struggimento. Perchè restituisce quell’altrove mitico, sognante, pieno di vita e desiderio al nostro immaginario (e questo ci rende felici) e lo contrappone all’attualità misera, piccola, ordinaria, insinuando una malinconia senza vezzi sentimentalistici (e questo ci strugge).
Intorno a una simile rete di sentimenti e riflessioni si chiude l’ultima fatica registica dell’ottuagenario cineasta, il cui semplicistico e riduttivo (seppur generalizzante) titolo italiano, Radio America, non restituisce onore e dignità al semplice, ma ben più aperto e accogliente, A prairie home companion, espressione che in italiano potrebbe tradursi all’incirca come "La voce amica della prateria". Curiosamente come per America Oggi, altro titolo altmaniano che in inglese suonava con il ben più significativo e allegorico Short Cuts, "Ritagli", i titoli italiani sottolineano esclusivamente l’aspetto cronachistico, da reportage su un maniera di vivere e sulle abitudini di un Paese, occultando uno dei nodi fondamentali del cinema del vecchio Bob, la rielaborazione delle storie individuali in chiave personale ed emozionale rispetto al presente di una collettività alla quale si sente di appartenere nonostante tutto.
Radio America non è un documentario di fiction su una stazione radiofonica provinciale al suo ultimo giorno di programmazione o un’analisi della musica country e del suo significato socio-culturale, ma la messa in scena goliardica, grottesca, dolorosa e scanzonata di un insieme di uomini e di donne che hanno condiviso un’esperienza comune e che alla vigilia del termine di questa esperienza cercano di elaborare il lutto.
Come mai precedentemente in Altman troviamo qui un’alternanza esemplare tra gli altrove e il presente, i primi resi dai ritagli dietro le quinte del programma radiofonico arrivato alla trasmissione finale, con tutti i personaggi che contemporaneamente si confessano, si scambiano aneddoti, ricordi del proprio passato con la macchina da presa, quasi estesa nella presenza di altre superfici riflettenti (massiccia la presenza di specchi), a raccogliere e rimandare le dimensioni di questa varia umanità del mondo dello spettacolo, il secondo manifestato nell’esistenza in diretta del programma stesso, realizzato, stravolto, vissuto davanti al microfono. E i due piani si toccano, entrano in contatto, le due linee parallele diventano un unico continuum fluido seppur con tutta l’aria dell’happening e la musica country diventa lo strumento rivelatore dell’altrove, della nostalgia, celebrazione di quello che siamo stati e di quello che siamo diventati.
Mentre in Nashville, altro grande film altmaniano su questo genere musicale radicalmente americano, le canzoni servono da smascheramento sardonico, contro-canto brutale di una mentalità ipocrita, della falsa coscienza collettiva di una paese. "La voce amica della prateria" canta invece senza bisogno di alienarsi per sopravvivere come faceva la star di Nashville Barbara Jean, ma con la voce calda, affettuosa, partecipe di Meryl Streep, quella giovane e morbida di Linsday Lohan, quelle graffianti e simpatiche di Woody Harrelson e John C.Reilly. Inni alla vita, pieni di gratitudine e amore verso qualcosa che stabilisce un contatto, una comunicazione: il calore del suono di una voce umana che canta, mescolato ad altre voci.
