The dreamers: Buongiorno sogno

Il sogno fa male, su questo non si discute. I sognatori sanguinano copiosamente un’immaginazione il cui sverginamento non è rimarginabile. E quando il sogno scade, va a male, puzza, allora la poesia dolente si fa prosa allucinata e presaga, che comunque al fondo riesce a tenere aperto uno squarcio per l’utopia, quel varco attraverso cui il condannato a morte fugge, a passo tranquillo e misurato. Laddove la combustione tragica dell’utopia sessantottesca alla fine con un salto carpiato salta proprio la deriva solipsistica del terrorismo per agganciare in volo lo slancio di “gioia e rivoluzione” del Maggio francese all’esplosione di Genova 2001. Insomma, “Buongiorno, notte” è ciò che esclamano i sognatori all’ingresso nel loro reame luminoso e oscuro, e la sovrapposizione mentale dei contemporanei Bertolucci e Bellocchio si innesta su questa spirale in abisso tra sogno e incubo che trova forma espressiva tramite una cogente manipolazione delle citazioni audiovisuali. Tra le visioni al nitrato dei tre cinemathequari e i sogni di Maya Sansa, immersa in neve, bandiere rosse e coreografie staliniane, corre lo scarto che proprio nel ’68 si è consumato tra cinefilia pura (il sogno che ingloba la vita intera) e la sbandata mao-marxista in cui la fantasia sarebbe andata ad annegare, nella sua illusoria rincorsa al potere proletario (col brigatista che per risolvere il problema alla radice non sogna più). Mentre la dimensione sonora va a rivelare una dissociazione forse ancor più pronunciata. L’oscillante Bertolucci va a chiudere rivendicando (a nome di una o due generazioni) di non pentirsi di niente con la voce di Edith Piaf, e poi chiama alle barricate sulle incendiarie perorazioni elettriche di Jimi Hendrix. Ancor più spericolato, Bellocchio non si perita di far commentare dai Pink Floyd le inquadrature finali di Paisà come le inquietanti carrellate sul parterre giurassico presenziante alle esequie di Moro, prima di accompagnare l’ultima camminata del Moro parallelo, libero e transustanziato, da un celeberrimo movimento di danza schubertiano. Entrambi, The Dreamers, col suo titolo blixeniano, e Buongiorno, notte, col suo omaggio alla suprema reclusa Emily Dickinson, non sono (o non sono solo) riconciliazioni tardive con i padri scartati, sbeffeggiati, ammazzati e poi resuscitati. Sono tuffi nel diamante folle dell’assenza, esercizi di claustrofilia e agorafobia, dove il problematico rapporto con l’esterno è sempre filtrato dallo schermo, grande e magnificente per Bertolucci, che vola nel tempo e nello spazio dalla camera della regina Cristina allo stagno di Mouchette, piccolo e straniante per Bellocchio, buco nero catodico in cui cadono decenni di storia italiana. Internamenti segnati dal curioso spiare del vergine occhio americano le pratiche enigmatiche dei gemelli francesi, dall’oscuro, lynchiano scrutare del vergine occhio della carceriera nel loculo del prigioniero. E quando si tratta di abbandonare la caverna per riaffrontare, in qualche modo, il mondo? C’è il mondo stesso che richiama con un sasso malandrino, costringendo alla scelta morale decisiva, pace o guerra, fuga o molotov. E, quando quella scelta è stata compiuta fino alle ultime conseguenze, c’è il gesto “gentile” di una donna (proprio come in Cantando dietro i paraventi di Olmi) a spalancare le porte: Moro esce dall’appartamento coi terroristi addormentati come Siddharta dal palazzo dell’illusione. Maya, infatti.
[ottobre 2003]
