The Great Gatsby
Quando un film è tanto atteso, bisogna sempre tenere in conto la possibilità di una cocente delusione. E così la marcia di avvicinamento a The Great Gatsby di Baz Luhrmann è stata cauta, da parte di tutti. L’ipotesi che la poetica pop del regista australiano potesse offuscare l’anima del mitico romanzo di F. Scott Fitzgerald si faceva avanti nella testa di molti. Ora che il film si è manifestato al mondo, uscendo nelle sale americane ed aprendo in grande stile la 66° edizione del Festival di Cannes, i dubbi preventivi sono stati sciolti. Il grande Gatsby a firma di Luhrmann non è un film entusiasmante ma neanche una cocente delusione. E’ un buon film, con alti momenti di cinema, ottime interpretazioni e una sfavillante visionarietà. Un’opera in cui il tocco di Luhrmann è evidente dall’inizio alla fine, con la macchina da presa in un eterno e fluido movimento, continui cambi di inquadratura, montaggio frenetico, colori accecanti, scenografie espressioniste ed opprimenti, musica martellante. La poetica del regista australiano è qui espressa all’ennesima potenza e il risultato, almeno nell’impianto visivo, è sorprendente e accattivante. Eppure si avverte la mancanza di qualcosa. E quel qualcosa è da rintracciare principalmente in due aspetti. Il primo riguarda la trasposizione in sé del romanzo e dello spirito di cui è infuso. A prescindere da alcune riduzioni narrative (vedi alcuni personaggi fondamentali nel libro, qui rilegati a figure di contorno), il problema sta nella descrizione dell’America ’20, che nel testo di Fitzgerald era la vera protagonista e che qui invece funziona quasi esclusivamente da contorno colorato e folkloristico al racconto della storia d’amore tra Gatsby e Daisy. Arriva poco, pochissimo, lo spirito del proibizionismo, strozzato da un’eccessiva focalizzazione sui sentimenti dei protagonisti e da un’estetica che con il suo vortice di colori e di musiche lascia tutto o quasi alla mera superficialità. Il secondo problema di The Great Gatsby risulta invece la mancata corrispondenza di ritmo tra la messa in scena e la narrazione. Può sembrare un controsenso, ma in realtà se la prima è dominata da una spinta ipercinetica che non lascia sosta allo sguardo, la seconda invece va avanti a rilento, con momenti morti nella parte centrale e un’evoluzione dei personaggi che procede a singhiozzi.
La nuova fatica di Luhrmann sa dunque di operazione riuscita a metà. Il film è una gioia per gli occhi e per le orecchie, ma contenutisticamente e narrativamente rimane piatto, regalandoci una bella e sofferta storia d’amore che non riesce ad ergersi metafora della decadenza americana degli anni ’20. The Great Gatsby lascia allo spettatore bellissime sequenze (vedi la prima festa a casa del milionario e il finale) ma non riesce ad andare oltre la sua semplice linea narrativa e soprattutto non riesce a scavare dietro la forte barriera della sua costruzione visiva. Ottimi comunque gli interpreti: Leonardo DiCaprio e Carey Mulligan sono dei perfetti Gatsy e Daisy, così come convincono Isla Fisher e Joel Edgerton, ma a rubare la scena a tutti è un intenso e misurato Tobey Maguire.
(The Great Gatsby) Regia: Baz Luhrmann; sceneggiatura: Baz Luhrmann, Craig Pearce; montaggio: Jason Ballantine, Jonathan Redmond, Matt Villa; fotografia: Simon Duggan; musica: Craig Armstrong; scenografia e costumi: Catherine Martin; interpreti: Leonardo DiCaprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan, Isla Fisher, Joel Edgerton, Jason Clarke; produzione: Bazmark Films, Red Wagon Productions; distribuzione: Warner Bros.; origine: USA, Australia; durata: 143’.