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Tom Brady, al posto giusto, al momento giusto

Pubblicato il 15 febbraio 2021 da Mazzino Montinari


Tom Brady, al posto giusto, al momento giusto

La nostra rubrica sempre di pallone parla ma questa volta di football americano. Buona lettura

Il giocatore è seduto in panchina, sta ancora pensando alla considerazione che gli altri hanno di lui. Si sente incompreso, nemmeno la squadra che lo ha selezionato al draft ha dimostrato un vero e proprio interesse. Nel 2000, prima di lui, le franchigie della NFL hanno chiamato 198 giocatori provenienti dalle università del paese. Arrivato a Boston, nei New England Patriots, si trova a fare la terza riserva di Drew Bledsoe, il ventottenne quarterback sconfitto nel Superbowl del 1996, che tutti continuano a celebrare come il fuoriclasse seppur senza titoli e che, soprattutto, ha firmato un contratto folle per durata e compenso. E quando mai lo avrebbe scalzato quel Drew, si chiedeva il giocatore seduto in panchina.

Stacco. In questa storia a metà tra Ogni maledetta domenica e The Last Dance, lo stesso giocatore, vent’anni dopo, è negli spogliatoi, e sta aspettando di entrare in campo per la prima partita della stagione. Un anno drammatico tra Covid e Trump. È solo. Sono accadute tante cose e ora deve dimostrare che a 43 anni non è un povero pazzo colpito dal delirio di onnipotenza. Lui è ancora in grado di giocare e di vincere. Ha scelto una squadra buona, certamente, ma che non accede ai playoff da tanto tempo. Avrà fatto la scelta giusta? A pensarci bene, è l’anno di Tampa Bay, città vittoriosa nell’hockey con i Lightning e finalista nel baseball con i Rays. E poi sempre la Florida ha prodotto i finalisti del basket, i Miami Heat. Magari è al posto giusto al momento giusto, avrà pensato il giocatore. Intanto però un brivido lo attraversa.

Altro stacco. Sono passati dodici giorni dall’11 settembre e dal tragico attentato alle Torri Gemelle. La partita con i New York Jets sta finendo. Per i "patrioti" di Boston si profila la seconda sconfitta consecutiva e zero vittorie. Il giocatore seduto in panchina declama a memoria i 198 giocatori scelti prima di lui. Uno a uno, e pensa, no lui prima di me, proprio no! Un anno seduto a guardare. Non si accorge che è successo qualcosa in campo. Tutti si sono alzati. Drew Bledsoe dopo una corsa di qualche yard per avanzare e tenere in gioco i suoi, viene letteralmente investito da Mo Lewis. Un colpo devastante ai danni del quarterback che, per poter lanciare, ha meno protezioni dei suoi compagni. Oggi una cosa del genere verrebbe sanzionata in modo severo. Il giocatore seduto in panchina finalmente ha capito. È arrivato il suo turno. Si scalda, ma non riesce a entrare in campo, perché Drew nonostante tutto prova a giocare i pochi minuti che restano. Non ce la fa, i danni forse invisibili sono comunque gravi: emorragia interna. E allora il giocatore in panchina finalmente varca la linea che delimita l’assenza dalla presenza, lo smacco di non giocare dal furore agonistico. Perde, ma il ruolo da titolare per la stagione è suo, a patto che sfrutti l’insperata occasione. Il football americano è uno sport spietato, più di altri. Si tratta di stare al posto giusto al momento giusto. E la regola vale sia per quelli che firmano contratti milionari sia per chi ha dovuto aspettare 198 nomi prima che fosse declamato il suo.

Il giocatore quarantatreenne entra in campo. Per la prima volta da quando è professionista veste una maglia diversa da quella dei Patriots. Ora è il quarterback dei Tampa Bay Buccaneers. Situazione irreale. Manca il pubblico. Nessuna emozione, nessun delirio. Sarebbe un evento sportivo molto atteso e invece sembra uno di quei match che si giocano in punta dei piedi per preparare il campionato. La partita si mette bene ma arriva la sconfitta. Il giocatore sa che la strada da percorrere è lunga, però i dubbi crescono e quelli che vorrebbero tanto vederlo cadere, iniziano già a sorridere.

L’ex riserva ora è titolare. E dopo qualche incertezza, vince e poi vince ancora. L’incubo del giocatore sottovalutato si è trasformato in una favola. Il signor nessuno porta la propria squadra ai playoff. Boston, il freddo, la neve, gli Oakland Raiders come avversari e, un’altra volta, l’episodio che fa girare il destino da una parte, la sua. Il giocatore si appresta a lanciare. Forse la bella storia sta per interrompersi. È stato bello ma ora bisogna lasciar spazio ai grandi. Il giocatore è colpito al momento del rilascio della palla ovale. E quell’oggetto tanto importante per gli attacchi e per le difese, è preda degli avversari, dei Raiders. È finita? No. Gli arbitri decidono che è un passaggio incompleto, quindi la palla nel momento in cui è caduta per terra non era in gioco. Sfera ovale ai Patriots e vittoria. Per anni si discuterà a proposito di quella chiamata e si cambieranno le regole. Nello sport, però, non ci si guarda indietro. Si va avanti. Il giocatore, insperatamente, con un infortunio al ginocchio e il ritorno di Bledsoe, si ritrova in campo al Superbowl e lo vince da sfavorito.

Stacco. Le cose vanno meglio. Il calendario di quest’anno dà una mano. I Buccaneers affrontano molte squadre con record perdenti. Il vecchio campione con sei Superbowl vinti e tre persi continua la sua sfida impossibile. E al primo turno dei playoff riceve in dote una squadra modesta, forse la peggiore di tutte, persino senza un nome: Washington Football Team (in attesa di un nome nuovo che sostituisca l’irrispettoso Redskins). Di seguito, ancora una volta da sfavorito sbatte fuori prima i New Orleans Saints (contro cui aveva rimediato due sconfitte in stagione regolare, una delle quali molto pesante) e poi i Green Bay Packers. Tutte partite in trasferta, anche se con poco pubblico. Ed ecco il nostro giocatore, nel 2021 di nuovo al Superbowl. Di fronte ha i campioni in carica. I Kansas City Chiefs. La squadra più forte, quella che dovrebbe porre fine alla storia assurda quanto reale della chiamata 199 al draft del 2000. E invece, i campioni in carica sono inspiegabilmente nervosi. Perdono la testa in difesa e subiscono continue penalità, mentre in attacco risentono di due gravi assenze nella linea che dovrebbe proteggere il quarterback, l’astro nascente, Patrick Mahomes, praticamente sempre per terra. Il quarantatreenne, invece, non lo tocca nessuno. Può lanciare e permettersi anche di sbagliare, tanto gli altri fanno sempre un errore in più. Funziona tutto e vince. Il film (si direbbe con una trama poco credibile, i più cattivi la definirebbero un’americanata) finisce qua, con un trofeo alzato nel 2001 e uno nel 2021. Nel mezzo altri cinque titoli, due dei quali vinti con tre punti di differenza (anche quello del 2001 è finito con lo stesso minimo scarto), uno di quattro punti con gli avversari, i Seattle Seahawks, che a pochi centimetri dal touchdown della vittoria si fanno intercettare, e uno ai supplementari (il primo nella storia della National Football League concluso in overtime) rimontando da 3 a 28 contro gli Atlanta Falcons in preda alla più classica delle paure di vincere, quando oramai avevano disputato più di metà incontro. E tanti altri episodi controversi (persino una squalifica per lo scandalo dei palloni sgonfiati), con i tifosi a idolatrarlo per ogni vittoria e gli hater a sperare, dopo ogni sconfitta, che di quel giocatore non se ne parlasse più. E invece non è affatto finita...

Una storia ispirata alla vita sportiva di un giocatore, Tom Brady.


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