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Tre ipotesi per una fine possibile. Suggestioni dopo le prime due puntate di "Speravo de morì prima"

Pubblicato il 22 marzo 2021 da Mazzino Montinari


Tre ipotesi per una fine possibile. Suggestioni dopo le prime due puntate di "Speravo de morì prima"

Il simbolo

Nassau, 11 dicembre 1981. Il vecchio pugile ascolta le parole dell’arbitro e osserva l’avversario, Trevor Berbick. Lo sguardo non è lo stesso di quando rivendicava i diritti del suo popolo. Non è quello che accompagnò il rifiuto ad arruolarsi nell’esercito per servire una patria che opprimeva le sue sorelle e fratelli. Non esprimeva la fierezza di quando, affrontando Joe Frazier o George Foreman, combatteva contro il mondo intero. È spento, alza le braccia come se il dottore lo avesse colpito con un martelletto, un semplice riflesso azionato da una memoria intermittente, da un’antenna che agitata dal vento perde e riconquista il segnale. Nell’edificio si urla, tutti si prestano meccanicamente a uno spettacolo senza aver bisogno di uno spartito da eseguire, di un copione da leggere. Il giudice dentro il ring detta le regole di sempre, lo speaker incita il pubblico che risponde a comando, i promoter contano i soldi e ostentano sorrisi di circostanza che tradiscono la delusione di un incasso mancato, i telecronisti analizzano le statistiche e azzardano pronostici, come se il risultato di quell’incontro fosse realmente in bilico e, soprattutto, come se interessasse a qualcuno. Non è più tempo per The Rumble in the Jungle (il match del 1974 con Foreman a Kinshasa), va in scena il Drama in Bahama, attore protagonista ancora una volta Muhammad Ali, il simbolo che teneva in ostaggio il corpo di un trentanovenne, per l’ennesimo ultimo incontro, costringendolo a incassare altri pugni per dieci round. A cosa stanno assistendo tutti a quanti? A quale rito stanno partecipando? Lo spettacolo si è divorato ogni cosa come un buco nero. E dopo la fine non resta nemmeno la memoria della fine stessa.

La sfida

Salt Lake City, 14 giugno 1998. Mancano 43 secondi, la partita è tesa, si segna poco, le squadre sono in parità. John Stockton dopo aver percorso il campo in orizzontale si libera del suo avversario e riceve la palla da Karl Malone, il compagno di mille battaglie che sa di trovarlo là, al suo posto. Non hanno bisogno di parlarsi, sono wireless. Per diciotto anni hanno navigato insieme, muovendosi in perfetta sintonia, cercando un successo che non è mai arrivato. I piedi del playmaker con lo sguardo da duro sono dietro la fatidica linea dei tre punti. Un canestro e forse si va alla decisiva gara sette delle finali del 1988 tra gli Utah Jazz, la squadra di John e Karl, e i cinque volte campioni NBA, i Chicago Bulls di Michael Jordan. Già, quel Michael Jordan. La nemesi di chi lo bollò al liceo come un giocatore mediocre di scarse qualità fisiche. Di chi non lo scelse per primo e lo regalò a Windy City. Di chi lo definì un eterno perdente alle prime sconfitte. Di chi lo accusò di affari loschi. Di chi credeva di essersene liberato per sempre al primo ritiro, nel 1993 all’indomani della misteriosa morte del padre.

Mancano 42 secondi. Splash. La palla con parabola perfetta è entrata. Utah è avanti di tre punti, è quasi fatta. In altre occasioni, Michael si era affidato anche ai suoi compagni, sviando gli avversari, tutti su di lui. Ma questa volta, no. È l’ultima partita, l’ultima sfida. E non può finire in altro modo che con una vittoria firmata dalle sue azioni. Mancano 37 secondi. I Jazz sopra di tre e sicuri di poter gestire il gioco, danno semaforo verde al numero 23 in maglia rossa. Jordan segna due punti facili. Avanza Utah. Stockton come tante altre volte aspetta il movimento di Malone che, puntuale, taglia per ricevere la palla spalle al canestro. Bisogna tenerla il più possibile, far passare il tempo e...da dietro arriva MJ che ha già visto tutto e con una manata si impossessa della sfera a spicchi, neanche fosse il ragazzino viziato dei campetti che esclama: "la palla è mia, ci gioco io!".

Mancano 19 secondi. Jordan palleggia. Punta a destra, vira a sinistra, attenta alle ginocchia del suo marcatore che, infatti, per salvarle si lascia per un attimo fatale cadere per terra. Arresto in solitudine e tiro. Sguardi in su, sono pochi decimi di secondo e sembra un lungo fermo immagine. La palla va su per aria e splash. Michael Jeffrey Jordan ha vinto. I Chicago Bulls hanno trionfato nella loro last dance, ultima perché gli stessi proprietari e manager hanno deciso di demolire la squadra, di distruggerla per rifondarne un’altra. Lui ora è col cappello celebrativo, il sigaro d’ordinanza e le mani che indicano il numero sei. Non esiste un popolo da portare avanti con sé, non vuole essere celebrato come fece successivamente Kobe Bryant che nel suo ultimo anno costrinse i Los Angeles Lakers a un tour di sconfitte per riscuotere applausi e saluti in tutte le arene. Voleva solo vincere. Voleva solo attuare la sua ultima vendetta. Perché vincere significa sconfiggere gli altri. E gli anni trascorsi a Washington, per il secondo ritorno in campo? Dimentichiamoli!

Il gioco

Roma, 19 marzo 2021. Dopo una giornata caotica, il silenzio. Un paio di puntate di un audiolibro, Il Conte di Montecristo, un bicchiere di vino, peccato che il frigorifero non offra granché per accompagnarlo. Non si può avere tutto dalla vita ed è già tanto che dalla stanza da letto non si senta più una voce. Dormono! Distrattamente prende il telecomando, inizia proprio in quel momento una nuova serie Sky, su un calciatore, il Capitano, il numero Dieci, l’ottavo Re di Roma, insomma su Francesco Totti e, in particolare, sulla fine della sua carriera. Il pregiudizio sul calcio e sulle serie italiane non è sufficiente a fargli cambiare canale e inizia a guardare. Il pregiudizio inizia a sorridere con aria trionfante. La mimesi, la parlata romana accentuata che si trasforma in cliché. Gli aneddoti. E poi che sarà mai questo calcio? Quali popoli hanno trovato il vero riscatto attraverso un goal? Altri cinque minuti e poi...Ma ne passano dieci, venti e dopo quaranta, arriva il secondo episodio. Il pregiudizio, mestamente, va a farsi una tisana, mentre l’uomo col telecomando e il bicchiere di vino ha lasciato la punta del divano per prendere una posizione più comoda, tra un pupazzetto, una macchinina, un piccolo ramo e un libro di Barbapapà.

Qualcosa colpisce di quel prodotto bizzarro. Non è il racconto di un simbolo, non esiste un Vietnam nell’orizzonte di quel ragazzo che non sembra elaborare un piano, un grande progetto. Avrà letto Il Conte di Montecristo? E non è l’apologia di uno sfidante che vuole solo vincere e dimostrare di essere il più forte. Il Capitano non è come quei campioni tanto celebrati che hanno scelto la squadra giusta per raccogliere titoli. Lui è diverso. O, forse, è identico a tutti quelli a cui piace semplicemente giocare, con quel piccolo particolare dell’immenso talento. Classifiche, vittorie, sconfitte, pareggi, tecnica, preparazione fisica, infortuni, la squadra, i tifosi, i giornalisti, i fischi, gli elogi, l’amore, l’odio, gli allenatori che arrivano, che se ne vanno e che talvolta ritornano (magari per farlo fuori), dettagli importanti, imprescindibili, ma stare sul campo con una palla da addomesticare e colpire, quella è un’altra cosa...è la cosa.

E ora che tutto sta per finire? Speravo de morì prima . «Tutto a un certo punto finisce. La fine è una parola schifosa, odiosa, si nasconde in tutte le cose, come un sorcio. E quando ti sembra lontana, la fine, mica ci pensi. Poi all’improvviso ti accorgi che è là, a due passi [...] Alla mia età può essere tutto finito. Il gioco, l’amore, la vita. Perché per me il pallone è proprio quello. Il gioco, l’amore, la vita. E non vorrei che finisse mai».

Epilogo

Tre ipotesi per una fine possibile. Tre ipotesi basate su rappresentazioni, non su vite reali, perché nessuno (di certo non all’uomo col telecomando e il bicchiere di vino) sa cosa sia passato per la testa di Muhammad Ali, Michael Jordan e Francesco Totti. Abbiamo i racconti, i film, i libri, gli articoli più o meno documentati e poi le gesta, le imprese, le cadute e le improvvise resurrezioni. Tre ipotesi che non contemplano l’idea che si possa essere diversi da ciò che si fa. Incastrati nella loro immagine...nella nostra immagine, possiamo essere altro dalla storia d’amore appena conclusa, da un lavoro che è diventato un’ossessione, da una città che dobbiamo abbandonare, da una schivata e un gancio, da una schiacciata e una stoppata, da un dribbling e una rovesciata?


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